Quale miglior occasione allora per leggere il nuovo libro fresco di stampa di Massimo Roscia: Di grammatica non si muore. Come sopravvivere al virus della punteggiatura e allo sterminio dei verbi.
Massimo Roscia cos’ha di diverso questa grammatica da tutte le altre?
La copertina, in cui è raffigurata una bomba di colore arancione intenso, che si staglia su un campo bianco (su un foglio a righe, a voler essere precisi); l’autore, che non è un grammatico, un linguista o un lessicografo, ma un giov… – ops! avvicinandomi ormai ai cinquanta, l’aggettivo potrebbe apparire inadatto – uno scrittore, un semplice scrittore, che ama la lingua italiana; l’organizzazione dei contenuti, che permette di leggere il manuale come una raccolta di racconti e non come il bugiardino di un farmaco; il linguaggio, che è semplice, diretto, genuino e mai professorale; l’idea, che è quella di aver messo da parte i vecchi e noiosi manuali ricolmi di obblighi, divieti e prescrizioni spesso incomprensibili e di aver voluto presentare la grammatica nella sua veste più gioiosa, colorata, moderna, popolare, vivace e seducente.
Tra il serio e il faceto, ricordando il grande Rodari e il suo Libro degli errori, il volume si apre con tutto quello che non è e non si ha l’obbligo di fare
«Vale la pena che un bambino impari piangendo quello che può imparare ridendo?». Prendendo spunto proprio dalle parole dell’inarrivabile Gianni Rodari e volendo considerare la grammatica come un grande gioco, credo che non sia necessario far versare lacrime ai bambini (e neanche agli adulti). Nel libro non ci sono regole da imparare a memoria e da ripetere meccanicamente, ma solo alcuni esempi, brevi racconti, battute di spirito e spaccati di vita quotidiana che, mi auguro, potranno stimolare il lettore, fargli conoscere quello che non sa e ricordare quello che già sa, aiutare la mente a spaziare, amare ancora di più la nostra magnifica lingua. Il tutto sorridendo, senza versare una sola lacrima. Garantito.
Apostrofi e accenti, punti e punti e virgola, acca muta ma fondamentale, verbi e pronomi: il libro si rivolge a studenti ed insegnanti?
Il libro, per gli argomenti trattati, ha un carattere decisamente ecumenico. È sufficiente sfogliare un giornale, guardare la televisione, leggere un annuncio pubblicitario o un atto amministrativo, ascoltare una conversazione mentre si è in fila alla cassa del supermercato, navigare su internet per rendersi conto che spesso l’uso poco accorto delle regole grammaticali non riguarda solo le aule scolastiche. Un dubbio, un’esitazione, una svista, la fretta, un limite oggettivo, un banale malinteso e… una parentesi aperta non viene chiusa, una virgola fa la sua sciagurata comparsa tra soggetto e predicato verbale, un «non centra niente» diventa la trasposizione in Times New Roman corpo 12 di un improbabile bersaglio e un congiuntivo desiderativo viene maldestramente sostituito con un condizionale. Tutti, chi più e chi meno, commettiamo errori. Non c’è nulla di cui vergognarsi. L’importante è correggersi, non stancarsi mai di apprendere e saper trasformare questi inciampi in occasioni per migliorarsi.
Parole in libertà è il titolo dell’ultimo capitolo del libro. Se dovrei fare un elenco… da dove prendi tutti questi strafalcioni?
Non dimentichiamo che l’italiano, pur essendo una lingua logica e in apparenza molto facile da apprendere, è straordinariamente complesso e a volte (e non avvolte) si presenta come un pavimento su cui è stata appena passata la cera. In questi casi il rischio di fare un capitombolo è dietro l’angolo. Gli scivoloni capitano ogni giorno, a tutti i livelli, a tutte le latitudini, dal bar dello sport al Parlamento, dalla Valle d’Aosta alla Sicilia. Se dovrei fare un elenco delle fonti, sarebbe interminabile. Dalle citazioni latine (Repetita Juve) alle prime pagine dei giornali (PIL -0,4%, Italia in rescissione); dai modi di dire (col segno di poi) agli antichi adagi (Prima o poi tutti i nodi vengono a galla); dai ristoranti (verdure gradinate) agli ospedali (la costola inclinata); dai graffiti sui muri (Ti amo e l’osai) ai viaggi (saluti da Palma di Maiolica); dai cartelli stradali (Ci scusiamo con il disagio) ai negozi di fiori (consegne a domicidio); dai centri commerciali (costumi d’amare) alle scuole (il 6 giugno 1944 ebbe luogo lo sbarco in Lombardia); dalle banche (assegno postargato) agli avvisi che l’amministratore del palazzo rivolge ai suoi – fate attenzione all’accento – condòmini (Non istruire il passaggio); da Facebook (Dico sempre c’ho che penso) a Whatsapp (Quando voglio una cosa l’ho tengo sempre).
Il web e i social quanto hanno influito sul degrado della nostra lingua e come fare per fermare la terribile deriva di apericena, ciaone e piuttosto che?
Mi sembra un sequel (per usare un termine caro agli anglofighetti) del film “La TV e la lingua italiana”. Come la televisione, che in passato è stata considerata straordinario strumento di alfabetizzazione delle masse e, al tempo stesso, causa del degrado dell’idioma e dell’impoverimento lessicale dell’italico telespettatore, così il web e i social. Per quanto la questione sia complessa, è sufficiente dire che sono strumenti, che possono essere usati bene o usati male. Quanto alle derive: il dilagare del “piuttosto che” usato erroneamente con valore disgiuntivo si sta per fortuna arrestando; la sorte del ciaone e di altri effimeri neologismi mi pare già segnata (tra qualche mese non ne resterà che uno sbiadito ricordo); la questione apericena – parola macedonia, dall’aspetto disarmonico e il genere tuttora incerto, contro la quale da qualche anno conduco una mia battaglia personale – è ancora irrisolta. Il virus si riproduce continuamente, assume nuove, orrende e cacofoniche forme (aperipranzo, aperisushi, aperipiscina, aperishopping, apericeretta, aperikaraoke…), si replica in un delirante aperiaperitivo, si sublima in un onnicomprensivo e poco comprensibile aperitutto. Ma riusciremo a trovare l’antidoto. Ne sono certo.
Terminiamo con un tuo suggerimento: “se avete ancora dubbi, vi consiglio di consultare sempre un vocabolario della lingua italiana o di cercare una risposta sul DOP (Dizionario italiano multimediale e multilingue d’Ortografia e di Pronunzia; lo trovate su Internet: www.dizionario.rai.it”.
MASSIMO ROSCIA è nato a Roma nel 1970 (qualcuno sostiene nel 1870). Scrittore, critico enogastronomico, docente, condirettore editoriale del periodico “Il Turismo Culturale”. Autore di romanzi, saggi, ricerche, guide e vincitore di diversi premi letterari, ha esordito nel 2006 con “Uno strano morso ovvero sulla fagoterapia e altre ossessioni per il cibo”. L’originale noir sul rapporto cibo-nevrosi ha ottenuto in pochi mesi un grande successo di pubblico e di critica. Da qualche anno insegna comunicazione, tecniche di scrittura emozionale, editing, letteratura gastronomica e marketing territoriale.