Il libro di Eugenio Marino, pur di qualche anno fa, ripropone un tema quanto mai attuale e interessante: la musica della migrazione. Gli italiani hanno disseminato la loro cultura popolare e alta ovunque nel mondo, contaminando i luoghi di approdo e facendosene contaminare. Quale il ruolo delle canzoni?
La canzone agiva su diversi piani: accompagnava ritmicamente, come un metronomo, i tempi sul luogo di lavoro (si pensi ai canti delle donne nelle risaie, degli operai sui cantieri o dei contadini nei campi); diventava inno nelle lotte politico-sindacali o nelle manifestazioni per i diritti o di mobilitazione per particolari campagne (ricordo qui i canti politici nelle grandi manifestazioni, le molte canzoni a favore di Sacco e Vanzetti); faceva da colonna sonora negli spostamenti interni e verso l’estero, descrivendo ogni sfaccettatura delle emozioni dei migranti; diventava nenia amorosa per consolare o esaltare la nostalgia verso gli amori lontani. Insomma, le canzoni erano un bisogno primario innato in cui irrompevano sentimenti di qualunque natura, esaltandoli.
E questo vale sia nella musica colta che in quella popolare, quella cioè prodotta e fruita dalle classi popolari, che registra modalità e pratiche differenti rispetto alla musica colta, anche se da questa è condizionata e contaminata, e che allo stesso tempo riesce a contaminare. Un fenomeno che ha contribuito all’affermazione di un prestigio canoro e di un modello di vita “all’italiana” che si è affermato all’estero e ha condizionato gli stili di vita locali. Anche con questi brani, inoltre, la canzone italiana è entrata a pieno titolo nella tradizione del bel canto e nei più importanti teatri del mondo, sulla scia del successo dei maggiori protagonisti canori.
Nonostante nei primi del ‘900 fossero perlopiù i giovani che emigravano, il tema della canzone dell’emigrazione italiana è quello “del rimpianto per un’epoca felice definitivamente scomparsa”. Emigrazione e nostalgia vanno dunque di pari passo?
In genere sì, anche se tutto ciò è più il frutto di una contrapposizione romantica alla William Wordsworth, che dall’800 in poi ha segnato buona parte della letteratura fino a metà 900. Un atteggiamento che ritroviamo soprattutto nella canzone di largo consumo, dai toni melodrammatici, scritta non da emigrati, ma da autori italiani che, per quanto colti, sensibili e attenti, all’emigrazione guardavano come fenomeno nazionale e di massa da descrivere artisticamente, dedicandosi più al taglio sentimentale e, appunto, artistico della canzone che all’approfondimento sociale e politico, o anche solo popolare, dove tutto ciò avviene molto meno. Anche per questo, dunque, nella canzone di largo consumo era facile cadere nell’errore di pensare che ogni emigrante avesse come desiderio quello del ritorno. In effetti questo desiderio era dettato dal solo sentimento e da quel velo che il tempo e i ricordi calano sulla realtà delle cose, addolcendola e trattenendo solo gli aspetti positivi del passato in Patria, idealizzandolo e mitizzandolo, rimuovendo le ragioni per le quali si era, in realtà, partiti. Quando subentrava, infatti, una maggiore razionalità, il sentimento in canzone era accostato alla presa di coscienza della realtà delle cose e di quella quotidianità che cambiava i destini, nel tempo e nello spazio, come è ben spiegato nel canto popolare genovese “Ma se ghe penso”, che di questa mitizzazione e del suo contrappunto razionale è forse l’esempio più paradigmatico.
La canzone dell’emigrazione racconta di chi parte, ma anche di chi resta. Che differenze ci sono?
Tante o nessuna, dipende da come vogliamo leggere questa domanda. Chi parte dall’Italia e chi resta sono due facce della stessa medaglia, due destini di una medesima storia nazionale, due componenti della stessa macroeconomia, due pezzi di storia familiare, due pilastri della medesima identità nazionale.
Un intellettuale della politica italiana, Gianni Cuperlo, ebbe a dire che “noi non saremmo quello che siamo – l’Italia non sarebbe il Paese che è – se alle spalle non avessimo quella pagina straordinaria di umanità – anche di sofferenza certo – ma soprattutto di speranza, che e stata l’emigrazione italiana”. Una pagina di storia talmente lunga da poterla definire millenaria. Roma è diventata un impero seguendo l’espansione dei suoi sudditi oltre lo Stivale e ha scatenato delle guerre, come quella di Numidia contro Giugurta, come reazione al massacro dei mercanti italici sulle coste africane, finiti laggiù ben prima dell’impero. Quindi la nostra storia migratoria parte già dai tempi dell’antica Roma (o, ancor prima, dall’arrivo sulle coste laziali dell’immigrato Enea se vogliamo prendere in considerazione anche il mito, l’epica, insomma la parte più profonda e autentica di una cultura). Ma in epoca moderna è l’Italia il Paese che ha la storia più lunga, più continuativa e massiccia di emigrazione economica, se consideriamo il periodo dall’Unità a oggi. E in questo occorre fare attenzione al fatto che mentre discutiamo sono di più coloro che lasciano l’Italia per l’estero che quelli che arrivano. A dimostrazione del fatto che se un’emergenza c’è, è in uscita non in entrata. Ecco, dunque, che la canzone di emigrazione, cantando gli emigrati espatriati, diventa il termometro per misurare da fuori la temperatura di dentro della malattia: cioè i problemi economici strutturali del Paese. Quindi, parlando del perché si è partiti, si raccontano anche i problemi di chi è rimasto.
Come cambiano le canzoni migranti da quelle del primo ‘900 a quelle degli anni ’50?
Sostanzialmente più nello stile e nei generi musicali. Nel Secondo Dopoguerra e negli anni Cinquanta l’Italia partecipa a quel fenomeno di risveglio anche musicale che ha invaso l’Europa, soprattutto con forti influenze statunitensi. Arrivano e sono liberi di fare tendenza e proselitismo (al contrario di quanto avveniva durante il fascismo) i nuovi generi musicali del jazz e del rock and roll, irrompono sui palcoscenici cantanti che non sono più solo professionisti del canto selezionati per le qualità canore, ma “urlatori” dalle voci anche modeste, magari privi di grandi doti nel canto, ma che promuovono contenuti, messaggi o generi nuovi da veicolare. Questo vale per la musica in generale e, ovviamente, anche per la canzone di emigrazione, che non è un genere musicale a sé, ma un argomento (un tema) trasversale ai vari generi musicali: dalla canzone di largo consumo al rock, dalla canzone folk a quella politica, dai canti popolari alla canzone sanremese.
Il suo volume arriva fino ai giorni nostri in cui la migrazione più classica si fonde con quella dei “cervelli in fuga”. Quali canzoni accompagnano i nostri giovani?
Tante, persino quelle che l’ascoltatore a volte non coglie come canzoni di emigrazione. Penso ad alcuni capolavori dei cantautori dell’ultimo trentennio del secolo scorso,.“Pablo” o “Titanic” di De Gregori, ad esempio, dove il tema migratorio non si coglie immediatamente, ma c’è e si inserisce in un contesto culturale e di approfondimento molto significativo e ampio. Più recentemente, ci sono alcuni testi rap molto interessanti come “Goodbye Malincònia” del pugliese Caparezza e “Sacco o Vanzetti” del calabrese Kento. O brani più raffinati come “Rosa”, di Brunori Sas, “Cigarettes” di Simone Cristicchi, “Precario è il mondo” di Daniele Silvestri. Fino a particolarissimi fenomeni musicali sperimentali come quello in dialetto laghée di Davide Van De Sfroos e la sua “E semm partii” o quelli dei “Cervelli in fuga” di Luca Bassanese e “Un cervello in fuga” di Francesco De Francisco. Brani che magari vengono ascoltati, cantati, ma che difficilmente, però, diventano oggi inni o bandiere del fenomeno migratorio. Ma questo è dovuto non al fatto che non vi sia emigrazione, ma che gli stessi emigrati italiani (giovani o meno giovani che siano) oggi non si percepiscono come tali, nel senso classico del termine.