“Cantare in italiano non è una sfida è una sfiga” (Ligabue)

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Luca Zuliani è veramente una sfiga cantare in italiano?
Ligabue, ovviamente, sa di cosa parla e non ha tutti i torti. Nell’intervista qui citata, insiste sul più famigerato dei problemi dell’italiano per musica: la mancanza di parole tronche (cioè accentate sull’ultima sillaba), che spesso sono richieste dalla melodia alla fine dei versi o delle strofe. Racconta che talvolta è persino costretto a rifiutare di scrivere il testo per la musica di qualcun altro, perché ci sono troppe tronche obbligatorie e lui sa già che verrebbe male. Del resto, cantanti e cantautori hanno spesso la tentazione di passare ad altre lingue: De André disse che questa era una delle ragioni per cui era passato al dialetto, ma la scelta più facile, ovviamente, è l’inglese; in tutto il testo, o, più spesso, solo nelle rime, da “Il tuo bacio è come un rock” fino a “C’è un dollaro d’argento sul fondo del Sand Creek”.

Nel ‘700 tra tutte le lingue europee quella italiana era considerata la più adatta alla musica. Cos’è cambiato?
Spesso si pensa che sia cambiata la musica. In realtà non è così, perché il rock non ha poi di molto peggiorato le cose. Invece è cambiata la lingua: le arie d’opera, le romanze, e anche le canzoni fino più o meno agli anni Sessanta potevano usare un italiano artificiale, pieno di termini letterari, di cambiamenti nell’ordine normale delle parole e di troncamenti artificiosi. Ai tempi di “Caro mio ben / credimi almen / senza di te / languisce il cor” era più facile adattare la lingua alla musica.
C’è però un’altra cosa che va tenuta presente: allora come oggi, se si riesce a chiudere un testo in italiano, il risultato suona benissimo – anche gli stranieri tendono a pensarla in questo modo. Da questo punto di vista, l’italiano rimane una grande lingua per musica.

I cantautori italiani degli anni ‘60 e ‘70 spesso sono stati definiti dei poeti. Pensiamo a Battiato, De Gregori, Guccini, De André. Quale differenza tra l’italiano della poesia e quello delle canzoni d’autore?
Le differenze sono molte, ma sono molti anche i punti di contatto. Partendo da questi ultimi, la prima cosa che spicca è il ruolo sociale dell’attuale canzone d’autore: corrisponde, in gran parte, a quello che una volta era riservato alla poesia. Oggi facciamo fatica a immaginarlo, ma ancora nel secolo scorso capitava spesso che un giovane liceale cercasse nei libri appena usciti di D’Annunzio o Montale quello che il suo equivalente moderno cerca nei testi dei cantanti o gruppi preferiti. Erano una piccola minoranza, ovviamente: ma prima dell’attuale cultura di massa, i poeti e i loro lettori stavano comodamente in cima alla gerarchia culturale, perché i testi per musica non potevano offrire niente del genere.
Oggi, invece, la canzone si è avvicinata molto alla poesia, anche proprio alla poesia moderna. Ci sono però alcune difficoltà. Le principali, a mio parere, sono due: la prima è la difficoltà a fare poesia, nel senso moderno, se bisogna rispondere alle necessità della moderna industria culturale e, quindi, andare incontro ai gusti della maggioranza del pubblico. Il rischio, per un cantante che aspira alla poesia, è sempre quello di apparire non autentico – oppure di confinarsi anche lui, come i poeti, in una nicchia per pochi adepti.
Il secondo grosso problema è di tipo formale: oggi, quasi sempre, viene prima la musica e poi le parole. Quindi le parole devono adattarsi alla musica. Nel caso dell’italiano, la musica chiede alla lingua un prezzo molto alto. Di conseguenza, i testi hanno di solito le proprie ragioni formali al di fuori della lingua e quindi, come è ben noto, perdono molto se sono considerati da soli, senza la loro melodia.

Quali sono le scelte stilistiche, i metodi e addirittura gli stratagemmi che gli autori usano per modellare e plasmare l’italiano nelle loro canzoni?
I metodi e gli stratagemmi sono molti e molto sono cambiati nel tempo, anche negli ultimi anni o decenni. Spesso le innovazioni sono nate fra i testi che apparivano meno sorvegliati (gli 883, ad esempio, hanno avuto un ruolo importante) e poi sono risalite fino ai piani più alti.
Si combatte soprattutto su due fronti: da un lato il problema di cui si diceva, il bisogno di rime accentate sull’ultima sillaba. Negli ultimi anni l’uso di tronche non tradizionali, di sdrucciole riaccentate, di parole che prima non potevano trovarsi in rima (“Se vedi uno che / è appena sveglio e / ha l’occhio un poco spento”, cantano gli 883) si è molto diffuso e ha raggiunto talvolta livelli di grande raffinatezza – creando però anche una nuova artificiosità, diversa da quella delle arie d’opera.
Dall’altro lato, c’è la tendenza dei versi per musica ad avere un ritmo monotono, ripetitivo, sulla base degli accenti delle battute musicali. Spesso viene combattuto, per evitare che il testo assomigli a una filastrocca se è recitato. Ma c’è anche chi non ha remore ad abbandonarsi a ritmi molto diversi da quelli propri della lingua italiana.

Oggi regna il rap, cantato o anche parlato. Tronco, ritmato, pieno di accenti, quasi senza melodia. Un’impresa titanica rappare in italiano?
La questione del rap è un po’ diversa. Non ci sono grosse costrizioni sulle rime – a parte di solito i ritornelli – e si possono usare versi lunghi, adatti a una lingua polisillabica come l’italiano. Rimane la tendenza a seguire un ritmo più serrato e monotono di quello naturale, ma questo non limita affatto le possibilità espressive di chi scrive il testo. Di conseguenza, il rap è l’ambito in cui l’italiano per musica può finalmente dedicarsi liberamente al racconto, alle invenzioni linguistiche, alle spiegazioni e ai discorsi complessi e articolati. Si rischia, casomai, un eccesso di formalismo: testi troppo lavorati e sovraccarichi, spesso privi anche di quell’elemento di improvvisazione – o di apparenza di improvvisazione – che dovrebbe caratterizzare il rap nella sua forma originale.

Luca Zuliani insegna Linguistica italiana presso l’Università di Padova. I suoi principali campi d’interesse sono la filologia d’autore, la lingua e la letteratura italiana del Novecento e i rapporti fra poesia e musica nella tradizione italiana. Le sue pubblicazioni più importanti sono l’edizione critica delle poesie di Giorgio Caproni (Mondadori, 1998) e il volume Poesia e versi per musica. L’evoluzione dei metri italiani, uscito presso il Mulino nel 2009.

 

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