Vado a mangiare nonna. Vado a mangiare, nonna.

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È solo una “questione di virgole” Leonardo Luccone?

Non è mai solo “questione di virgole”. In tanti si sono arrovellati su forma e contenuto, e un russo di nome Timofeef è arrivato a parlare di contenuto come trasformazione della forma in contenuto, e di forma come trasformazione del contenuto in forma. Dice con parole complicate qualcosa che abbiamo sempre sotto gli occhi e che gli antichi avevano sintetizzato nel famoso detto “l’abito non fa il monaco” subito diventato “l’abito fa il monaco”, che non è altro che una denuncia di quanto la forma prevarichi il contenuto. Nel mio libro analizzo tanti casi reali in cui la punteggiatura diventa determinante per la comprensione del testo. La scrittura è un aspetto serissimo del nostro bagaglio umano e del percorso di vita. Ci sono studi rispettabili che mostrano l’imperversare, oltre che del vituperato analfabetismo di ritorno, di un impoverimento culturale preoccupante. È come se la scuola e la formazione non siano più al centro degli interessi del nostro paese.

“Che, scusate se sono poche, ma settecentomila lire, punto e virgola, noi ci fanno specie che quest’anno, una parola, quest’anno c’è stato una grande moria delle vacche, come voi ben sapete! Punto! Due punti!! Ma sì, fai vedere che abbondiamo. Abbondandis in abbondandum.” Così Totò nella famosa lettera alla malafemmina.  È meglio abbondare con la punteggiatura?
No, per carità. La punteggiatura deve essere quella strettamente necessaria, anzi mi spingo a dire che la punteggiatura deve tendere all’essenziale. Cos’è questo abbondare di virgole a cui assistiamo, o il proliferare di frasi cortissime punteggiate solo con punti fermi? Una specie di scrittura telegrafica in cui si è persa completamente l’idea di frase. Parliamo delle secondarie? Sono in via di estinzione.

Leggete invece questa frase perfetta:

Stanotte mi sono alzato. Ho controllato che nei muri e vicino alle porte non si fossero aperte delle crepe. Sono sceso a vedere anche nella piccola cantina che c’è sotto un voltone, dove tengo la legna. Poi sono venuto qui, con una coperta sulle spalle perché di notte fa freddo anche se siamo in estate, seduto su questa seggiola di ferro dalle gambe sottili che sprofondano sempre più nel terreno, di fronte alla bassa balaustra di pietra che dà sullo strapiombo. Prima di uscire di casa ho preso un vecchio binocolo che mi sono portato fin qui ma che non uso mai, perché non c’è niente da vedere, solo questa distesa impenetrabile di schiuma vegetale che ricopre il mondo a perdita d’occhio.

Lo punto su quella lucina. Manovro la rotella un po’ spanata, per mettere a fuoco, perché la lucina sembra allargarsi e restringersi, come se la vedessi dall’altra parte di una superficie d’acqua. (Moresco, La lucina, Mondadori)

È semplice, equilibrata, chiara e visiva.

Dio è morto, Marx è morto e anche il punto e virgola non si sente molto bene.

Questo è sicuro. Se stare bene vuol dire proliferare, cioè invadere i media più popolari (che so, i giornali di intrattenimento e in generale tutta la scrittura sul web), allora il punto e virgola è in coma irreversibile. È tenuto in vita dai macchinari.

Io però credo nei miracoli e ho scritto Questione di virgole nella speranza che questo segno meraviglioso possa avere un riscatto. Credo che ci possa essere molto utile. Forse prima l’ho fatta troppo tragica: sono sorpreso quando uno scrittore giovane lo usa con proprietà e disinvoltura. Certo, tra i miei colleghi ce ne sono tanti che hanno già scritto l’epitaffio (povero punto e virgola, ha un libro di epitaffi!).

Il ragionamento che faccio è semplicissimo: guardiamo come l’hanno usato i grandi scrittori – classici, moderni e contemporanei –, e rendiamoci conto di quanto questo segnetto può darci un sacco di soddisfazioni.

Leggete questo passaggio:

Solo a questo punto sono arrivati i cosiddetti dati di fatto, con le prime immagini. Anna: il suo volto bruno, splendente; il fatto che è mia moglie; la certezza che la amo. Franceschino: la felicità di avere un figlio; il suo volto oblungo, spaurito, che somiglia al mio. E ancora, mia madre: i suoi occhi verdi sempre pronti alla commozione; la sua leggendaria somiglianza con Sophia Loren; le sue membra gracili tra le mie braccia. E mio padre: la sua distanza, la sua severità, la mia incapacità di andarci d’accordo anche da adulto; il suo cadavere in alta uniforme, distante anch’esso, dentro la bara aperta e circondata di corone di fiori; la notizia pazzesca che non era vero niente, che era russo, che era comunista, che era una spia in missione…(Veronesi, La forza del passato, Bompiani)

Avete capito cosa intendo?

Le lingue evolvono in continuazione. Così anche la punteggiatura?
Sì, la punteggiatura evolve a braccetto con la lingua. Ci sono stati momenti di particolare intensificazione – come per esempio tra la metà del Quattrocento e i primi anni del Cinquecento, quando si è sviluppata la stampa tipografica – in cui bisognava prendere decisioni importanti. Dai miei studi è venuto fuori che la tecnologia ha un impatto molto importante sulla scrittura, sia a livello di forma sia di contenuto. Parlando di punteggiatura, in questo momento direi che siamo al punto più basso per consapevolezza, capacità e varietà di uso.
Basterebbe ripartire dalla lezione empirica dei grandi scrittori del Novecento. Calvino, per esempio, ha sempre sostenuto che si dovesse investire sulla propria scrittura. Insisteva tanto su “scatto e precisione nella scelta dei vocaboli, economia e pregnanza e inventiva nella loro distribuzione e strategia, slancio e mobilità e tensione nella frase, agilità e duttilità nello spostarsi da un registro all’altro, da un ritmo all’altro”.  Il lavoro sulla punteggiatura si inserisce nella stessa matrice.

L’interpungere è un esercizio di potere, sostiene nel suo libro. Cosa intende?

Intendo che una bella punteggiatura, una prosa solida ed efficace si fanno notare. Si ha un’arma in più, e lo stesso vale per l’eloquio. C’è un gran bisogno di bellezza e di praticità. Badate bene: scrittura e punteggiatura di gran livello spesso sono invisibili. Sono talmente perfetti che non ci si accorge di star leggendo. Ammiriamo questo esempio di Umberto Pasti, arbiter elegantiae:

Ne discende una delle prime regole del giardinaggio, che ti consiglio di imprimerti nella mente: bello è un giardino in cui vengono piantate specie per le quali è possibile compiere intero il loro ciclo vitale, perché il loro fogliame riflette nel modo giusto la luce del sole, il loro colore si armonizza con quello delle altre piante e con quello del cielo – fanno parte della storia e della cultura del luogo, sono da secoli in quel luogo, da secoli l’uomo le ha viste e conosciute lì –, mentre brutto, e volgare, e non-giardino, è quello spazio in cui le piante vengono disposte con un presunto criterio puramente estetico, che proprio nella sterilità conseguente delle varietà prescelte rivela la sua fallacia e la sua tracotanza.
(Umberto Pasti, Giardini e no, Bompiani)

Non è meraviglioso? Non sentite quanto la forma aderisca perfettamente al contenuto? Ecco, quando si scrive così il lettore è alla mercé dello scrittore: ipnotizzato.

L’autore
Leonardo G. Luccone ha fondato nel 2005 lo studio editoriale e agenzia letteraria Oblique. Ha tradotto e curato volumi di scrittori angloamericani come John Cheever e F. Scott Fitzgerald. Con Laterza ha pubblicato Questione di virgole (2018).

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