Comunque anche Leopardi diceva le parolacce. L’italiano come non ve l’hanno mai raccontato edito da Mondadori. Un titolo accattivante per un libro intelligente. Ne parliamo con il suo autore Giuseppe Antonelli, docente di Storia della lingua a Cassino, collaboratore del “Sole 24 ore”, conduttore di “La lingua batte” su Rai Radio 3.
La lingua è un organismo vivo e, con l’intenzione di proteggerla da ogni innovazione, si finirebbe per metterla in gabbia e farla morire triste e deperita. Questo è il punto di partenza, e direi anche di arrivo, di tutto il libro.
È proprio così. Il conservatorismo di chi non ammette che la lingua cambi, la nostalgia di chi rimpiange quando c’era egli, il catastrofismo di chi vede sempre a un passo la morte (del congiuntivo, del punto e virgola, dell’italiano stesso) nascono da un sentimento nobile – l’amore per l’italiano – ma finiscono con l’avere un effetto opposto a quello desiderato. Si cita spesso la frase di Leopardi che dice “per rimetter davvero in piedi la lingua italiana, bisognerebbe prima rimetter in piedi l’Italia e gl’Italiani, e rifar le teste e gl’ingegni loro”. Ma quasi sempre si trascura il fatto che Leopardi diceva questa frase prendendosela proprio coi puristi e coi conservatori. Qualche giorno prima, infatti, aveva scritto nello stesso Zibaldone: “impedire alle lingue la giudiziosa e conveniente novità non è preservarle, ma tutt’uno col guidarle per mano, e condannarle, e strascinarle forzatamente alla barbarie” (14 marzo 1821).
Quello che più mi ha colpito piacevolmente è il continuo rimando al passato e da lì di nuovo al presente. Anche Leopardi diceva parolacce, anche Dante e Boccaccio sbagliavano il congiuntivo e anche Manzoni diceva un momentino. Insomma anche i grandi sbagliano, potremmo dire. Siamo in buona compagnia.
In realtà, i grandi non sbagliavano: era l’italiano che era diverso. Quando Dante e Boccaccio scrivevano “che tu vadi”, ancora non c’era una grammatica scritta dell’italiano. E quando poi c’è stata, proprio in forza del loro modello, ha a lungo ammesso come corretto quel tipo di congiuntivo: tanto che, ancora nell’Ottocento, Leopardi scrive “che tu sii” nel pieno rispetto della grammatica così come gli era stata insegnata. Poi, pian piano, quello che un tempo era norma è diventato errore. Guardare alla storia della lingua ci permette di relativizzare ciò che riteniamo assoluto: giusto e sbagliato, bello e brutto, elegante e popolare. La storia dell’italiano è piena di sorprese. Soprattutto se, come ho cercato di fare in questo libro, si scava sotto la superficie della lingua ufficiale.
Punto, virgola, punto e virgola, due punti in ricordo della famosa lettera di Totò e Peppino nel film “Malafemmina”. Come usarli oggi?
La punteggiatura oggi è sempre più importante, per il semplice fatto che oggi scriviamo in continuazione – come mai era accaduto nei secoli passati – un’immensa mole di testi: chat ed sms, Twitter e Facebook, blog e e-mail. Grazie alla telematica, la scrittura fa ormai parte della vita di tutti i giorni; e la punteggiatura è una strumentazione essenziale per rendere chiara ed efficace qualsiasi comunicazione scritta. Oggi più che mai, la punteggiatura ci serve tutta: quella tradizionale, per dare al testo la giusta scansione logica; quella innovativa (faccine comprese), per imprimergli la giusta tonalità emotiva.
L’italiano dei cantautori, dei politici, dei giornalisti. Siamo tutti coinvolti nello stravolgimento grammaticale della nostra lingua.
L’italiano dei cantautori è stato fondamentale tra la fine degli anni Sessanta e la fine degli anni Settanta del secolo scorso, quando ha contribuito a diffondere un modello di italiano non scolastico, davvero spendibile nella vita di tutti i giorni. I giornalisti, almeno quelli delle grandi testate nazionali, scrivono molto meglio di ciò che non si creda: basti dire che il loro italiano è stato preso a modello di scrittura in un manuale autorevole come quello di Luca Serianni (Leggere, scrivere, argomentare, pubblicato da Laterza). Quanto ai politici, vale quello che ha scritto qualche anno fa un altro grande linguista come Cesare Segre: “La nostra classe politica, che in tempi lontani annoverava ottimi parlatori e oratori, tende sempre più ad abbassare il registro, perché pensa di conquistare più facilmente il consenso ponendosi a un livello meno elevato. È la tentazione, strisciante, del populismo”.
Personalmente ho adottato la parola “po’” che cerco di preservare nella sua corretta grafia. Ha un senso curare un vocabolo in “pericolo di vita” o si finisce per essere etichettati come profeti di sventura?
Torniamo al punto di partenza. L’unico modo per curare l’italiano è usare un italiano accurato. Bene dunque scrivere un po’ con l’apostrofo e qual è senza. Ma italiano accurato non vuol dire italiano artificiale (come quello di chi usa o pretende che siano usati recarsi, egli, poiché, effettuare). Già mezzo secolo fa, Italo Calvino definiva “antilingua” quella di chi diceva “ho effettuato” perché non sapeva dire “ho fatto”. L’altro giorno ho visto in Facebook la foto di un bancone di salumiere dove spiccava il cartello “non si effettuano panini”. Certo non è questo l’italiano accurato. L’italiano accurato è quello che cambia e si plasma a seconda delle situazioni, dell’interlocutore, dell’argomento, dell’effetto che si vuole ottenere. E Leopardi, che lo sapeva bene, quando scriveva L’infinito usava la lingua sublime della nostra tradizione poetica, ma quando scriveva dei fatti suoi ai suoi amici diceva anche le parolacce.
Sms, chat, blog, facebook con i social gli italiani sono ritornati ad essere un popolo di scrittori. Le nuove tecnologie sono uno strumento per rendere l’italiano sempre più vivo o un’ulteriore spinta definitiva verso l’abbandono delle regole, l’invasione degli anglismi, la punteggiatura sparsa a caso, le abbreviazioni da social?
Più che di scrittori, di scriventi. Poi forse anche di scrittori, a giudicare da quanti si auto-pubblicano e si auto-promuovono in rete. Ma la novità è – lo ripeto – che la telematica ha fatto di noi tutti degli inguaribili graforroici. Per la prima volta l’italiano si ritrova a essere non solo parlato, ma anche scritto quotidianamente dalla maggioranza degli italiani. E questo non rimarrà certo senza conseguenze. Quando – nella seconda metà del Novecento – l’italiano è diventato finalmente la lingua parlata tutti i giorni dalla maggioranza degli italiani, il cambiamento rispetto alla tradizione letteraria e grammaticale è stato rapido e profondo. L’impatto con quella nuova massa di parlanti ha improvvisamente svecchiato una lingua che fino ad allora era stata soprattutto libresca. Ora che tutti scrivono in qualunque momento e di qualunque argomento, anche la lingua scritta cambierà inevitabilmente in modo più rapido. Certo, com’è importante saper parlare in modo diverso a un colloquio di lavoro o al bar con gli amici, così sarà sempre più importante saper scrivere sia un testo di 140 caratteri pieno di abbreviazioni ed emoticon sia un testo compiuto e tradizionale, articolato nelle sue scansione argomentative. Ma la nascita di un italiano scritto veramente informale non può che essere considerata un arricchimento per la nostra lingua. L’italiano è vivo, viva l’e-taliano!
Giuseppe Antonelli insegna Storia della lingua italiana all’Università di Cassino. Collabora all’inserto domenicale del «Sole 24 Ore» e conduce su Radio Tre la trasmissione settimanale La lingua batte. Tra i suoi ultimi lavori: Ma cosa vuoi che sia una canzone. Mezzo secolo di italiano cantato (Il Mulino, 2010) e la curatela della Storia dell’italiano scritto (con Matteo Motolese e Lorenzo Tomasin, Carocci, 2014, 3 voll.). È in libreria da pochi giorni il suo Comunque anche Leopardi diceva le parolacce. L’italiano come non ve l’hanno mai raccontato (Mondadori).