Il percorso de “La storia illustrata della lingua italiana” si snoda in quattro capitoli di cui parliamo con gli autori Luca Serianni e Lucilla Pizzoli. Si parte ovviamente dal latino per arrivare sino ai giorni nostri.
È stato difficile condensare in poco più di 140 pagine un percorso così lungo e complesso e si possono identificare dei punti cardine nell’evoluzione della nostra lingua?
Condensare un insieme complesso di eventi, che mettono in gioco oltre alla lingua anche storia e letteratura, è naturalmente assai difficile. Si trattava, appunto, di isolare alcuni snodi più significativi. Ne ricordiamo soltanto due. Il primo, non solo per ragioni cronologiche, è costituito dal latino, che non è solo alla base dell’italiano e delle altre lingue romanze, ma è anche un serbatoio al quale fino all’Ottocento hanno attinto un po’ tutte le lingue dell’Europa occidentale. Il secondo è costituito dalla tipica fisionomia letteraria dell’italiano. A differenza di altre lingue (il francese, lo spagnolo, l’inglese) in cui una lingua riconosciuta dalla società si imposta per ragioni politiche, in quanto lingua prima di tutto del potere politico, l’italiano nasce, in un contesto di esasperata frammentazione politica, come lingua della grande letteratura. Sono le “tre corone”, Dante, Petrarca e Boccaccio, i veri creatori di una lingua che, codificata dai grammatici e dai lessicografi del Cinquecento, è arrivata sino a noi come “lingua italiana”.
Nel secondo capitolo si affronta il rapporto tra lingua e media: il cinema, la radio, la televisione, fino ai social, alla rete, alla posta elettronica. Un viaggio che spazia dalle “Sorelle Materassi” al maestro Manzi, da Claudio Baglioni fino a WhatsApp e twitter. Quale ruolo i media, vecchi e nuovi, sull’evoluzione/involuzione dell’italiano?
I grandi mezzi di comunicazione hanno reso familiare a moltissimi italiani una varietà di lingua parlata e hanno così facilitato il processo di unificazione linguistica. La radio, il cinema e soprattutto la televisione hanno insegnato a parlare a milioni di persone: ora sono piuttosto uno specchio (a volte non sempre fedele, ma distorto e ingigantito), dei comportamenti, anche linguistici, degli italiani. I ‘social’ hanno ulteriormente amplificato questo processo: la sollecitazione a comunicare è maggiore e il confronto con la lingua è aumentato. Non si tratta affatto di un fenomeno negativo per l’italiano, perché ci obbliga a una continua riflessione sul mezzo, alla ricerca della parola e del tono giusti per ogni occasione. Certo, però, si è alzato il livello di tolleranza per forme che in altri contesti si considererebbero scorrette.
Il terzo capitolo tocca un tema particolarmente attuale. Si parla dell’influenza delle lingue straniere nell’italiano. Spagnolo, arabo, francese, fino all’inglese dal secondo dopoguerra. Ai nostri giorni forse si esagera un po’. Senza cadere nel “purismo di stato” potremmo pensare di trovare il modo di “dirlo in italiano”?
Gli apporti da lingue straniere sono un naturale arricchimento dell’italiano. Solo le lingue morte non ricevono “doni” (come qualcuno definisce gli apporti forestieri) da altre lingue. Indubbiamente, se l’equilibrio tra lingua straniera e lingua ricevente si altera, potrebbero esserci conseguenze spiacevoli sulla tenuta della seconda lingua. Quanto all’inglese, il problema non sta tanto nell’afflusso di singoli prestiti, pur numerosi e pervasivi, ma nel fatto che si tenda ad appaltare all’inglese interi settori dell’istruzione superiore, per esempio i corsi magistrali di carattere economico, scientifico o tecnologico. Una lingua è un tutto o non è diceva, ad altro proposito, Manzoni. Se l’italiano non avesse più risorse proprie per parlare di fisica quantistica o di chimica farmaceutica, cesserebbe di essere una lingua a pieno titolo e diventerebbe un dialetto: un idioma del tutto rispettabile, certamente, ma non adatto, per ragioni storiche (non certo intrinseche) a trattare di certi settori del sapere.
Si finisce poi con i tanti italianismi con cui l’italiano ha arricchito le altre lingue nel mondo parlando di musica, di commercio, di banche, di marineria, senza dimenticare i grandi flussi migratori tra il XIX e il XX secolo. Qual è stato il ruolo degli italiani all’estero?
L’italiano ha avuto funzioni diverse a seconda delle epoche nelle quali è stato apprezzato fuori dai confini della penisola: lingua della finanza e del commercio nel Medioevo, della conversazione elegante nel Rinascimento, dell’arte e della musica nell’età moderna; oggi la lingua italiana è visibile nelle insegne commerciali delle grandi città o nei nomi di prodotti di successo soprattutto in relazione a uno stile di vita che viene percepito come piacevole ed elegante e per questo viene richiamata nella moda, nel design, oltre che nel fortunato settore della gastronomia. Gli italiani emigrati nell’ultimo secolo hanno formato all’estero comunità anche molto consistenti, che oggi risultano ben integrate nel paese ospite. Il legame con l’Italia è stato più o meno forte, ma è indubbio che molta della domanda di italiano all’estero si spiega con l’esigenza di riscoprire le radici familiari. Vanno fatti i conti ora con la nuova realtà della migrazione italiana nel mondo: si tratta prevalentemente di un pubblico di giovani altamente specializzati, ai quali l’Italia deve presentare un’offerta culturale di grande qualità perché si possa mantenere un legame forte con il paese di provenienza.
Per concludere cosa vi ha spinto a scrivere la storia illustrata della lingua italiana, quasi un fumetto grafico? Qual è il ruolo delle immagini che più che accompagnare in questo caso riescono efficacemente ad essere un tutt’uno con il testo?
Le immagini sono il naturale complemento della cultura verbale (e questo vale anche per la letteratura o la storia). Nel caso della lingua, si trattava di far vedere il volto di alcuni grandi protagonisti della scena, da Bembo a Calvino, i simboli di grandi imprese lessicografiche, come le pale e le gerle legate all’Accademia della Crusca, ma anche di dare un’idea dei vari documenti della cultura scritta, a partire dai graffiti e dalle scritte estemporanee. Sono scritture spesso sgrammaticate, che testimoniano però (prescindendo dalla violazione del decoro urbano, certo deplorevole) della vitalità della lingua e della sua capacità di dare voce così ai grandi poeti che mirano all’immortalità come agli anonimi che lasciano labile traccia dei propri umori imbrattando i muri degli edifici o le saracinesche dei negozi.