L’italiano diventerà un dialetto d’Europa?

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diciamolo-in-italiano_2Welfare, privacy, premier, tax, jobs act, spending review, mobbing, stalking, customer care. L’italiano diventerà un dialetto d’Europa? Negli ultimi trent’anni gli anglicismi sono più che raddoppiati. Ne parliamo in questa intervista con Antonio Zoppetti autore del libro che vi proponiamo per il mese di novembre.

 

 

Quali sono i settori in cui il fenomeno è maggiormente presente?
Tanti. Troppi. Cominciamo dagli annunci di lavoro in rete e dal conteggio delle figure professionali espresse in inglese e in italiano? Le posizioni ricercate si chiamano perlopiù junior e senior consultant, promoter, advisor, buyer o sales manager. E le best practice del mondo del lavoro  impongono ormai di chiamare i progetti planning, le scadenze deadline, e addirittura le telefonate sono rimpiazzate dalle conference call. Non è più possibile evitare questo aziendalese anglicizzato, perché si è percepiti come obsoleti e si rischia di compromettere la propria professionalità.

A questo linguaggio ci abituano sin dalla formazione, dove si fa education, imperano i master, e gli insegnanti sono sostituiti dai tutor.  In alcune università è in atto una battaglia per l’insegnamento in lingua inglese, molti scienziati si schierano apertamente a favore del monolinguisimo internazionale dimenticando che la scienza nasce con Galileo, che ha rotto la tradizione del latino per dare vita a una prosa in italiano splendida e rigorosa.

Anche il linguaggio tecnico, economico o informatico sono molto anglicizzati. Un’infinità di parole vengono spacciate per “prestiti di necessità” con la scusa che non esistono equivalenti italiani, ma la verità è che non si vogliono tradurre o reinventare e preferiamo chiamare le cose come c’è scritto sulla scatola di chi ce le vende. Quelli che vengono definiti internazionalismi spesso non lo sono affatto. In Francia c’è l’ordinateur più che il computer, in Spagna il computador, camputadora e ordenador. Da noi, calcolatore o elaboratore sono oggi inutilizzabili, e il mouse, che ovunque è tradotto con topo (souris in Francia, raton in Spagna, Maus in Germania) non ha un corrispettivo italiano.

L’inglese è di moda, anzi d’obbligo. E infatti nel linguaggio della moda non si può più parlare di trucco, ma di makeup, i parrucchieri sono hair stylist, l’abbigliamento e gli accessori diventano outfit, e non è possibile tradurre espressioni come spray and splash (cioè: il tappo a spruzzo si può anche svitare per fare uscire il prodotto direttamente dalla boccetta) con schiaccia e spruzza, altrimenti si è out e persino ridicoli.

Si sa che le lingue cambiano, si evolvono e si contaminano. Quindi perché l’itanglese è un problema?
L’itanglese è la rinuncia alle nostre radici, alla nostra storia, alla nostra cultura e al futuro dell’italiano. Curiosamente, nessuno ha da ridire sulla difesa e salvaguardia dell’italianità in altri campi, dal patrimonio artistico a quello culinario. Ma per la lingua, sembra che la sua tutela (normale in Francia, Spagna o in Cina) sia un’idea da conservatori antiquati.

Le lingue vive cambiano, certo, ma proprio perché sono vive non bisogna dimenticare che possono anche morire. L’espansione dell’inglese  globalizzato interferisce con gli idiomi di tutti i Paesi, ma dai noi il numero e la frequenza degli anglicismi non sono paragonabili a quanto accade altrove.

Il problema non è però l’inglese, ma gli anglicismi che entrano senza traduzione e adattamento. L’influsso dei forestierismi non è un problema, se ci arricchisce con parole come grattacielo (calco da skyscraper), con reinvenzioni adattate come rivoltella (da revolver) e con allargamenti di significato di parole esistenti, per cui singolo (unico) assume anche il significato del “falso amico” single. Non mi spaventano nemmeno i verbi come scannerizzare (da scanner) anche quando sono solo semiadatti  come googlare o whatsappare. Questi casi non li conteggio nemmeno. Ma le parole inglesi senza adattamento che nel Devoto Oli 1990 erano circa 1.600, oggi sono più di 3.400. Il 90% sono nomi e costituiscono perciò il 4-5% dei sostantivi che abbiamo per designare le cose. La cosa sconcertante è che tra 1.049 neologismi del nuovo Millennio del Devoto Oli 2017, quasi la metà, 509, sono termini inglesi. Se andiamo avanti così l’italiano sarà sempre più incapace di esprimere ciò che è nuovo con parole nuove , e sarà il trionfo dell’itanglese.

Soprattutto, gli anglicismi sono sempre più frequenti: nel Vocabolario di base della nostra lingua di Tullio De Mauro del 1980, che includeva le circa 7.000 parole che si usano di più, c’erano una decina di inglesismi. Nell’aggiornamento 2016 sono decuplicati: 129 (senza conteggiare parole macedonia come salvaslip). L’analisi della frequenza degli anglicismi che si evince dai grafici di Google, basati sugli archivi dei libri, mostra analoghe crescite preoccupanti. Quelli che un tempo erano definiti dai dizionari  tecnicismi per addetti ai lavori (password, download, spread, benchmark…) oggi sono comuni e alla portata di tutti.
Qual è il ruolo dei media e quello della pubblicità?
I mezzi di informazione (se si può ancora dire così invece di mass media) sono tra i principali “untori”. Sui giornali preoccupa la rilevanza dell’inglese soprattutto nei titoli e nei sottotitoli, urlato in grande e visibile a tutti. È il monster da sbattere in prima pagina che induce all’emulazione.

L’italiano parlato si è imposto sui dialetti soltanto all’inizio del Novecento, con la radio, il cinematografo e poi con al televisione, che ha avuto un ruolo fondamentale (si pensi per esempio ad Alberto Manzi). Oggi i canali Rai si chiamano News, Movie, Premium, Gulp, e le televisioni commerciali vanno nella  stessa direzione. Persino programmi che puntano sull’italianità si chiamano The Voice of Italy o Italia’s Got Talent. Il linguaggio televisivo è fatto di nomination, location, reality, talk show, soap opera, fiction, sitcom… dall’unificazione della lingua italiana si è passati alla diffusione dell’itanglese.

In pubblicità le cose non sono diverse. Penso a una parola come spoiler, recentemente diffusa da una campagna martellante che l’ha resa un “prestito di necessità” senza alternative perché ci si vergogna a dire per esempio guastafeste. Da una parte c’è l’espansione delle multinazionali e dei marchi globali che diffondo i loro motti e i loro spot in inglese in tutto il mondo, dall’altra un’emulazione nostrana che usa lo stesso linguaggio anche per prodotti nazionali.

Tutelare e promuovere la lingua italiana, già così desiderabile e seduttiva, può aiutare il nostro Paese a rafforzare il proprio prestigio nel mondo, scrive Anna Maria Testa nella prefazione che si può scaricare in calce. In che modo il prestigio del nostro paese è collegato alla nostra lingua?
Annamaria Testa ha anche notato che mentre da noi si moltiplicano le insegne con Wine bar, nei ristoranti esclusivi di New York si dice invece vino, che evoca la nostra eccellenza. Durante il Rinascimento, l’Italia si è imposta in tutto il mondo culturalmente e linguisticamente, e molti italianismi (affresco, chiaroscuro, balcone, fuga o sonata) sono diventati internazionali. Dovremmo ricordarcene, e puntare di più sul potere evocativo della lingua italiana che va di pari passo con i prodotti che esportiamo, ma il nostro complesso di inferiorità ci fa preferire l’inglese, e questo si riflette anche sulla comunicazione di ottime imprese italiane che preferiscono ammiccare all’internazionalismo, come Slow Food o Eataly. Tra le nostre eccellenze c’è per esempio il design, ma lo dobbiamo esprimere con un anglicismo di ritorno: il termine deriva  da disegno, ma oggi esportiamo l’italian design. Ho sentito un importante politico intervenire sulle  contraffazioni straniere nel nostro settore gastronomico che si impegnava a contrastare “i prodotti italian sounding” così strategici per l’export del made in Italy. Invece di introdurre gli anglicismi persino nel linguaggio istituzionale, la politica dovrebbe badare anche alla lingua, perché è alla base del nostro prestigio e di ciò che ci contraddistingue nel mondo.

 

Link alla prefazione ANNA MARIA TESTA

Le tematiche del libro sono sviluppate e continuate sul blog Diciamolo in italiano: https://diciamoloinitaliano.wordpress.com/

 

Antonio Zoppetti si occupa di lingua italiana come redattore, autore e insegnante. Nel 1993 ha curato il riversamento in cd-rom del primo completo dizionario digitale messo in commercio in Italia: il Devoto Oli. Nel 2004, con un progetto in rete di dizionari realizzati dai bambini, ha vinto il premio Alberto Manzi per la comunicazione educativa. Tra i libri che ha pubblicato sulla lingua italiana e la scrittura ci sono: Sos congiuntivo for dummies, Hoepli, Milano 2016; “Storia della lingua italiana”, in Italiano nella scuola secondaria, Edises, Napoli 2016; L’italiano for dummies, Hoepli, Milano 2014; Blog. PerQueneau? La scrittura cambia con internet, Luca Sossella, Roma 2003.

 

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