Meeting, weekend, spending review, jobs act, breakfast, location, street food, mission, competitor. Ma non possiamo dirlo in italiano? –
La lingua italiana e le lingue romanze di fronte agli anglicismi –
Sono stati appena pubblicati in formato elettronico gli atti del convegno organizzato dall’Accademia della Crusca, in collaborazione la Società Dante Alighieri e l’Associazione Coscienza Svizzera, tenuto il 23 e 24 febbraio 2015 a Firenze. Il volume propone un analisi dell’uso dei forestierismi nella lingua italiana e un confronto con la situazione delle altre lingue romanze. Ne parliamo con Claudio Marazzini, presidente dell’Accademia della Crusca.
Combattere gli anglicismi, restituire agli italiani la loro lingua in tutti gli usi, anche per quelli scientifici, commerciali, di marketing, non sembra una battaglia di retroguardia?
Lo sarebbe se si trattasse di questo, ma in realtà non riteniamo di dover combattere gli anglicismi (o anglismi, come alcuni preferiscono dire) in tutti i settori menzionati nella domanda. Si tratta di fare due cose diverse, su due fronti opposti, quello della vita civile e quello della vita quotidiana della gente. Il fronte della vita civile è quello che investe il linguaggio delle leggi, la normativa dell’amministrazione a tutti i livelli. Qui si deve combattere l’anglismo elusivo e occultatore della verità, simile al latinorum di manzoniana memoria. Faccio subito due esempi. Uno è di Ferruccio De Bortoli, giornalista di fama, il quale, al convegno della Società Dante Alighieri, di fronte al Capo dello stato, il 26 settembre 2015 a Milano, ha fatto notare che invece di “spending review” sarebbe molto più civile dire “risparmi vitali”, perché la gente capirebbe meglio qual è l’obiettivo. Un altro esempio viene dalla proposta che il gruppo Incipit, insediato presso l’Accademia della Crusca, ha lanciato lunedì 28 settembre 2015: non si può adottare disinvoltamente, come si sta facendo, il termine “Hot spots” per indicare i futuri Centri di identificazione dei migranti che entrano nell’UE. Infatti il termine, per quanto presente nell’inglese burocratico dell’UE, ha già altre connessioni semantiche assolutamente diverse che si sovrappongono pericolosamente al presunto senso nuovo (ad es. “punto di connessione Wi-Fi”, “locale alla moda”, per non considerare i vari impieghi italiani di “hot” in contesti ludici, sessuali e alimentari) occultandone il reale significato, serio e drammatico per la vita delle persone che entreranno in questi Centri. “Hot spots” nella nuova accezione risulta offensivo, elusivo rispetto alla realtà, dunque politicamente scorretto.
Non si rischia di tornare alla politica contro i forestierismi messa in atto dal fascismo?
Per quanto riguarda gli anglismi della vita civile, credo che la mia precedente risposta mostri quanto si sia distanti dal fascismo. Veniamo ora agli altri anglicismi, quelli banali della vita quotidiana, quelli contro i quali si è rivolta la petizione delle 70.000 firme raccolte dalla pubblicitaria Testa. Mi riferisco a coloro che non sanno più dire “luogo” ma solo location, che non conoscono le “tappe” ma solo gli steps, che hanno una mission anziché un compito, uno scopo o una missione (si noti che i tre equivalenti italiani che ho citato offrono una magnifica possibilità di scelta semantica di diverso grado e di vario significato), coloro che credono nelle regole del dress code e non sanno che da noi esiste l’etichetta dell’abito scuro e della cravatta (forse pensano che etichetta sia solo quella che si attacca al dress per indicare il prezzo) e via discorrendo. Ebbene, non si tratta, come fece il fascismo, di imporre qualche cosa a costoro. Alla fine parleranno come vorranno. Nessuno impedirà loro di abusare degli snobismi. Si tratta di avvisarli che esistono anche parole italiane piuttosto buone, anche se talora persino un po’ più eleganti e dunque un po’ più impegnative.
Qual è la ragione per cui in Italia si è tanto propensi agli anglicismi?
Pesa su di noi la potenza economica del mondo anglofono, quella americana soprattutto. Ma poiché (come dimostra il nostro libro) gli italiani risultano più proni di tutti gli altri, è probabile che pesino molto la scarsa coscienza civile e la scarsa densità della cultura. Molti italiani parlano un italiano fragile, che impedisce loro di capire che cosa significhi il possesso vero di una lingua. Non parliamo della lettura e della scrittura. Il rapporto OCSE – PIACC 2013 ci pone all’ultimo posto per la comprensione di un testo, ultimi tra i 24 paesi in cui è stata svolta l’inchiesta (cfr. ciò che ne dice Michele Pellizzari: http://www.lavoce.info/archives/13368/competenze-degli-italiani-siamo-i-peggiori/; e il linguista Andrea Moro: http://noisefromamerika.org/articolo/competenze-adulti-qualche-dato-piu ; testo originale inglese: http://www.lavoce.info/wp-content/uploads/2013/10/OECD-Skills-Outlook-2013.pdf ).
Le proposte di traduzione dei termini inglesi sembrano a volte ridicole o stravaganti. E’ per questo che non si usano?
Quelle ridicole non dovrebbero essere nemmeno proposte, maa tra quelle menzionate da noi nella nostra conversazione, quale sarebbe ridicola? A me paiono più ridicoli i termini inglesi di cui abbiamo suggerito di non abusare.
Che ne pensa della campagna lanciata da Annamaria Testa #dilloinitaliano?
Annamaria è diventata uno di noi, anche se non ha propriamente il carattere e il curriculum di un accademico della Crusca. Ci ha dato strumenti che non sapevamo usare, ci ha insegnato quanto possiamo essere convincenti se diciamo cose piene di buon senso.
Esistono casi in cui gli anglicismi sono veramente necessari?
Senza dubbio, soprattutto nell’impiego tecnico e quando si opera all’estero. In altri casi si vede bene che la sostituzione non è possibile, anche se teoricamente esiste una parola italiana. Non credo che i medici abbandonerebbero stent. Nessuno glielo chiede, ovviamente. Ma tra lo stent del chirurgo e la location dello sprovveduto recensore dilettante di Trip Advisor io vedo una bella differenza.
Quali sono gli atteggiamenti delle altre lingue romanze di fronte alla diffusione sempre più vasta degli anglicismi?
Questo è il punto: tutti devono fare i conti con l’inglese e con gli anglicismi, ma nessuna lingua è disponibile ad accogliere tutto, spazzatura compresa, come lo è l’italiano. Nessuno è disposto come gli italiani a gettare via la propria lingua: non mi riferisco solo ai prestiti lessicali, ovviamente, ma alla fase successiva. Il pensiero corre subito alla causa del Politecnico di Milano e alle maldestre imitazioni in chiave di CLIL esasperato, minacciate (per ora a suon di chiacchiere e proclami) in un liceo di quella città. Per questo sta montando una protesta, una reazione che spero non si fermi.
Claudio Marazzini
Laureato nel 1972, è professore ordinario di Storia della lingua italiana nella Facoltà di Lettere dell’Università degli Studi del Piemonte Orientale . Il suo campo di studi è la storia della lingua italiana, che ha esplorato in molti saggi, libri e articoli su riviste specializzate (Lingua nostra, Lettere italiane, Studi linguistici italiani, Studi piemontesi, Historiographia linguistica ecc.). E’ autore di manuali generali dedicati alla storia linguistica italiana, dei quali il più affermato come testo di riferimento è La lingua italiana. Profilo storico. E’titolare della rubrica di lingua Parlare e scrivere del settimanale Famiglia Cristiana e condirige la rivista “Lingua e stile”, pubblicata dal Mulino. È membro dell’ASLI e della Società Italiana di Glottologia, socio corrispondente dell’Accademia delle Scienze di Torino per la classe di scienze morali, storiche e filologiche. Il 23 maggio 2014 è stato eletto Presidente dell’Accademia della Crusca.