Intervista a Fabio Finotti, nuovo direttore dell’Istituto Italiano di Cultura di New York

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(14/06/2021) Vi proponiamo l’intervista a pubblicata sul sito de “La Voce di New York“. L’intervista, curata da Stefano Vaccara, descrive la visione del nuovo direttore in merito alle attività del centro culturale che dirige e ne emerge un quadro articolato, diretto al pubblico degli italici per discendenza o affinità, che tiene in considerazione l’importanza del passato e della contemporaneità e della visione che il pubblico americano ha del nostro Paese.

Fabio Finotti, primo direttore “italico” dell’Istituto Italiano di Cultura di New York

A Park Avenue per intervistare il nuovo direttore dell’IIC e ascoltare la “nuova lingua” culturale sull’Italia che il prof. dell’Univ. Penn vuol diffondere da NYC

“L’Italia è sempre stata una comunità culturale prima che una comunità etnica. Anche gli italiani in fondo sono italici”

Nella graziosa palazzina che ospita l’Istituto Italiano di Cultura a Park Avenue – seppur più piccola non sfigura accanto al Consolato Generale d’Italia  – c’è un via vai di operai. Stanno smontando la biblioteca inaugurata pochi anni fa al pianterreno mentre, nelle sale al primo piano, tutto appare in trasformazione. Quando arriviamo all’ufficio del direttore dell’Istituto, al terzo piano, il Professor Fabio Finotti ci accoglie calorosamente invitandoci subito a dargli del Tu. Notiamo che ha anche cambiato la disposizione dei mobili dell’ufficio, i divanetti ora sono allineati col caminetto, nuovi quadri alle pareti, solo il dipinto di Garibaldi resta al suo posto.

Finotti, che abbiamo già presentato ai lettori ancor prima del suo arrivo a New York, è un accademico con diversi anni di esperienza negli USA. E’ dai tempi di Furio Colombo che la scelta per dirigere l’IIC di New York non ricadeva su un “americano”. Abbiamo tante domande, per una lunga intervista, in cui siamo in cerca della “vision” del nuovo direttore, su quale sia la sua idea di promozione della cultura italiana all’estero.  Ci sembra che Finotti non si tiri indietro e scopra abbastanza le sue carte. 

Negli Stati Uniti si studia un’Italia che in Italia ci sfugge: è una frase che hai detto già prima di arrivare a New York. Ci spieghi meglio?

“Parlando di letteratura, il canone letterario negli Stati Uniti prevede lo studio di Vico, che è fondamentale per gli americani. Di Gramsci… Ecco non si può dire che in Italia i nostri studenti considerino Vico e Gramsci due cardini della loro formazione. Mentre per gli americani è fondamentale dare una prospettiva generale allo studio del particolare e Vico e Gramsci hanno questa capacità straordinaria di creare e di dare un orizzonte molto ampio anche allo studio del singolo evento. Questo è il primo punto. Il secondo è lo studio di altri linguaggi, che non è solamente il linguaggio verbale. Quando io insegnavo all’ University of Pennsylvania era fondamentale collegare per esempio la letteratura al cinema, la letteratura alla cucina, la letteratura allo sport. Anche il cibo, l’elemento del digiuno per i religiosi… Tutta questa dimensione che non è strettamente  letteraria ma prevede altri linguaggi,  che non è solo quello verbale ma del comportamento, della dimensione antropologica, molto forte negli Stati Uniti e meno forte in Italia…”

Questo l’approccio che vorresti continuare da direttore “americano” dell’Istituto italiano di Cultura di New York?

“E’ quello che sto cercando di fare e questo corrisponde molto bene non tanto a quello che si fa all’università ma a quello che ci chiede la Farnesina, che da questo punto di vista è già più avanti, chiedendo quello che si definisce come promozione integrata. Cioè promozione integrata significa valorizzare e integrare la dimensione economica con quella culturale. Ma la promozione culturale è anche integrare tutti gli elementi della civiltà italiana e non considerarne solo uno isolatamente. Questo è proprio un aspetto della cultura e civiltà italiana, quello di costruire dei discorsi che intersecano diversi linguaggi di diverse discipline. Se tu pensi al Futurismo, non è stato solamente un movimento letterario ma ha cercato di intervenire in tutti i campi dell’esistenza, compreso anche quello gastronomico, quando veniva pubblicato il libro della gastronomia futurista. La stessa cosa si può dire già prima del Rinascimento o dell’Umanesimo, che sono movimenti che toccano ogni aspetto, da quello della letteratura a quello della politica, a quello della religione, a quello anche del comportamento quotidiano, nei grandi trattati come il Cortigiano e come il Galateo di Della Casa a quello dell’architettura, ancora quello del cibo. Ecco gli italiani hanno sempre saputo collegare i diversi linguaggi in forma generale del modo di vita, quindi dobbiamo recuperare questa dimensione interlinguistica della cultura italiana”. Continua a leggere sul sito de La Voce di New York

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