Vi segnaliamo con piacere un articolo del prof. Vittorio Coletti che propone delle riflessioni su un tema che viene affrontato con una certa frequenza all’interno dell’Accademia e che non manca di sollevare discussioni più o meno costruttive all’interno della nostra società.
“In Liguria architetta è diventato titolo ufficiale, riconosciuto dall’Ordine degli Architetti; ma non tutte le architette sono soddisfatte e alcune vorrebbero tenersi il vecchio appellativo al maschile. Il femminile guadagna posizioni ogni giorno in italiano, specie nei titoli di mestiere e professione, la cui mozione femminile è ormai, in tutta Europa, vasta e auspicata (cfr. G. Zarra, Quasi una rivoluzione. I femminili di professioni e cariche in Italia e all’estero, a c. di Y. Gomez Gane, presentazione di C. Marazzini, Firenze, Accademia della Crusca 2017). Nella maggior parte dei casi è solo questione di abitudine e quello che sulle prime sembra inaccettabile o ridicolo poi diventa normale. Dottoressa e professoressa sono nate con taglio spregiativo, ironizzando sulle signore saccenti o inaspettatamente (per i maschi) colte, e oggi sono titoli assolutamente comuni e rispettati.
Accettare una nuova parola è sempre difficile. Sembra che ci sia qualcosa che non va, tra il comico e l’errato. Bisogna dire che ci sono però anche problemi linguistici. Se architetta e architetto funzionano esattamente come sarta e sarto, verso cui nessuno avrebbe niente da dire, sulla coppia ingegnere ingegnera (per altro come infermiere infermiera) ci sono più resistenze, perché le parole a desinenza –e in italiano potrebbero essere tanto maschili quanto femminili (il/la teste, il/la rivale), ma in molti casi formano un femminile proprio, anche perché, se morfologicamente invariato, ai due generi possono corrispondere due significati ben diversi (si pensi alla coppia massaggiatore/ massaggiatrice che penalizza scandalosamente il femminile). La marcatura morfologica del femminile è uno dei grandi problemi della lingua, figlio, quasi sicuramente, di ancestrali consuetudini culturali (cfr. G. Lepschy, Lingua e sessismo, in Nuovi saggi di linguistica italiana, Bologna, il Mulino 1989, pp. 61-84), che inducevano, già in latino e anche prima, a contrassegnare l’eventuale femminile di nomi di agente in maniera forte. (…)”