(18/01/2017) Vi proponiamo questa intervista a Marco Rovaris, insegnante di lingua italiana nel carcere di Bergamo pubblicata sul sito fanpage.it
Cosa vuol dire insegnare italiano in carcere? In primis garantire ai detenuti il diritto di potersi esprimere, restituire l’arma della comunicazione a chi ha bisogno di resistere.
Insegnare lingua e letteratura italiana in carcere significa dare strumenti importanti ai detenuti, che hanno il bisogno fondamentale di comunicare e, soprattutto, di saper argomentare, saper difendere le proprie posizioni, poter coltivare obiettivi e mettere a fuoco le proprie mete. Apprendere l’italiano nel modo migliore possibile è indispensabile a tutti ma mille volte di più se sei un detenuto che sta scontando una pena o se devi difendere la tua innocenza. A raccontarci questo particolare universo dei detenuti, intenti a studiare la lingua italiana, è Marco Rovaris, dottore in Culture Moderne Comparate, che insegna Letteratura italiana e Storia nel carcere di Bergamo, all’interno di un corso ITC, e si occupa anche di cinema e documentari, fra questi si ricorda “Dante a mezzogiorno”. L’intervista.
“La lingua è indispensabile a tutti ma in particolare a chi si trova in una condizione di svantaggio e la capacità di comprenderne le sfumature e di approcciarsi in modo adeguato a diverse persone e circostanze può fare la differenza.
Credo che insegnare italiano in carcere sia una delle mie missioni proprio per queste ragioni. I miei studenti se ne rendono di quanto siano importanti i processi comunicativi, in particolare uno che si è diplomato lo scorso anno impazziva letteralmente per Pirandello e per i concetti di “ruolo” e “maschera”, consapevole di come tutto può essere arbitrario e relativo a seconda del punto di vista; non a caso era uno degli studenti con più anni di carcere alle spalle ed era ben cosciente di quanto l’uso della lingua fosse necessario per chi si deve approcciare, con obiettivi chiari, ad un avvocato, appuntato, magistrato o ad educatrice, solo per fare alcuni esempi di figure con le quali è necessario discutere. Mi ha subito incuriosito molto la loro reazione all’uso delle parole: “Anche quando non ci sono prove immediate, non mi definiscono presunto innocente, anche se io mi dichiaro tale; bensì sta a me dimostrare che non sono colpevole, perché risulto poco credibile a priori”. Non si può sottovalutare l’effetto psicologico che una certa terminologia ha su un soggetto, indipendentemente dalla effettività della colpa. Chi parte già costretto a rincorrere, deve avere gli strumenti per stare nel gioco della comunicazione, o ne viene schiacciato subito.
Pensiamo a Manzoni, che dimostra come chi non è in grado di confrontarsi – cioè chi è ignorante, inteso in un’accezione tutt’altro che negativa – è destinato a soccombere nel momento in cui si muove tra le frange più complesse della società.
Ed è quello che, sostanzialmente, sostiene anche Verga: meglio che i meno istruiti stiano tra loro e non si spingano oltre; credo sia per questo che Verga non piaccia quasi a nessuno in un contesto come il carcere, perché è un autore che suggerisce di rinunciare a un miglioramento della propria condizione. Lo stesso “burocratese” di cui parla Calvino è un problema che sussiste ancora oggi, forse addirittura peggiorato, e che mette in ginocchio tantissime persone che non sono in grado di interpretare documenti, avvisi, moniti, etc… E questo paralizza il sistema e spinge chi non ha gli strumenti a delegare, perdendo così la facoltà di essere padrone unico delle proprie decisioni. Quante volte mi sento dire, a proposito dell’ambito penale, “Ma che logica ha la giustizia italiana?”, “I miei capi di accusa sono in contraddizione, non possono sommarsi!”, e così via; non è mia facoltà né possibilità dare giudizi ed entrare nel merito, ma questa è la prova che i detenuti capaci vanno a sfogliare il Codice penale, studiano, si fanno delle idee e le mettono in circolo, dimostrando che la cultura non è erudizione, ma capacità di saper leggere le situazioni e interpretarle.”