Lingua italiana e inglesismi – Come salvare il salvabile. Intervista a Raffaele Simone

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(08/06/2016) Vi segnaliamo questa intervista al professor Raffaele Simone, docente di Linguistica generale presso l’Università di Roma Tre. L’intervista è a cura di Filomena Fuduli Sorrentino della redazione della Voce di NewYork.

Questo è il link all’articolo sul sito del quotidiano.

“Consulente editoriale, componente del comitato editoriale di riviste internazionali (da ultimo del “Bulletin de la Société de Linguistique de Paris” e “Langages”) attualmente si occupa di teoria della grammatica, teoria delle costruzioni e delle categorie, comparazione di lingue romanze, tipologia linguistica. Fuori dall’ambito tecnico, si occupa di filosofia della cultura e di politica universitaria, e in questi ambiti ha pubblicato saggi e volumi, diversi dei quali tradotti in varie lingue con cui ha vinto diversi premi per la saggistica.
D. Professor Simone, chi sarebbero i responsabili per questa invasione di termini stranieri nella lingua italiana?
R. Soprattutto la gente dei media e della pubblicità, a cui si uniscono gli economisti, alcuni pubblici amministratori. I giovani, con l’aiuto dei social forum, contribuiscono. La diffusione universale di gadget elettronici personali di mille tipi impone un certo tipo di lessico inglese o finto inglese, che si infiltra e permane. Non ci sarebbe nulla di male, salvo che spesso questi termini hanno equivalenti italiani perfettamente radicati (location, week end e mille altri), la diffusione di termini inglesi non produce affatto un miglioramento della conoscenza pratica dell’inglese. (Basta sentire l’inglese del nostro capo del governo attuale.) Quindi si tratta, nell’insieme, di un puro spreco.
D. Quali sarebbero le ragioni per l’inserimento di queste parole straniere nell’italiano, specie in settori quali la politica e la pubblicità? Quali le possibili cause sociologiche di questo fenomeno linguistico?
R. Questo fenomeno non riguarda solo l’italiano, ma tutte le lingue, fino al cinese e al giapponese. È un fenomeno planetario. Quindi, in un certo senso, mal comune mezzo gaudio. I motivi sono semplici e drammatici: la cultura americana (dapprima quella indirizzata agli adulti, oggi quella dei giovani) è dominante in tutto il mondo; a ciò si aggiunge il fatto che una varietà di scienze, pratiche e tecniche che all’inizio del XX secolo erano europee, alla fine del secolo sono diventate americane o internazionali, e quindi bisognose di una sola lingua: si pensi alla medicina, all’economia, alla moda, all’educazione, ecc. Questi ambiti hanno ormai l’inglese come lingua franca, e i termini che percolano nella lingua comune ne sono i detriti.
D. Professor Simone, secondo Lei gli italiani sarebbero in grado di impedire questa tendenza dell’uso di termini inglesi nei loro discorsi? Sarebbero disposti a farlo?
R. I flussi culturali non si arrestano, come le inondazioni. Ma si potrebbe attivare una sorta di diga immateriale: azione della scuola, maggior cura nella preparazione di giornali e telegiornali, e simili. Non credo però che si avrebbe una gran collaborazione in questa difficile operazione. Non bisogna dimenticare che l’inglese tutto sommato è cool, o come si diceva una volta in italiano fa fico e fa moderno. Nessuna lingua al mondo ha questa potenzialità.
D. Malgrado molti stranieri amino l’italiano, lo studio della nostra lingua è diventato facoltativo in molte scuole europee, dove prima era lingua Nazionale. È forse perché siamo un Paese che non sa investire sulle proprie risorse, o la ragione è che gli italiani sono attratti dalle parole inglesi?
R. Le lingue straniere si scelgono per tre ragioni (quando non son obbligatorie): la speranza di usarle come strumento di lavoro, come strumento di studio e di turismo, come base di storie sentimentali. Tutte queste motivazioni funzionano meglio se sono sostenute da un’azione di politica culturale energica e intelligente: iniziative, borse di studio, cattedre universitarie e scolastiche, ecc. Se le cose stanno così, non stupisce che l’italiano – a dispetto delle tante ciance che si dicono in contrario – sia una lingua in calo. La prima motivazione che ho indicata sopra in Italia è debole: a parlare italiano sono infatti, oltre a una parte degli immigrati, i calciatori, i musicisti e i piloti di formula 1. In tutta Europa, per questo motivo, si registra una corsa a studiare il cinese, perché i giovani hanno ben capito che con la Cina, prima o poi, bisognerà inevitabilmente avere a che fare. La seconda motivazione è attiva, ma non crea grandi numeri. La terza è individuale.
D. In Svizzera l’italiano è la terza lingua nazionale, una delle quattro lingue nazionali, ma ormai l’inglese è diventato obbligatorio, e oggigiorno l’uso dell’italiano, in regressione, sta diventando (o è già diventata) lingua straniera. Come si può spiegare questo fenomeno?
R. Forse l’italiano è meglio curato in Svizzera che in Italia. In quel paese, infatti, il personale politico è obbligatoriamente poliglotta, e le amministrazioni lo sono spesso anche loro. Ho sentito ministri svizzeri fare discorsi in cinque lingue senza alcuna difficoltà. Mi sono chiesto chi altro, in Europa, potrebbe fare lo stesso. Ma è ovvio che l’inglese serve anche a loro.
D. A New York, dove insegno, lo studio dell’italiano è richiesto sia nelle scuole pubbliche e sia nelle università, ma non tutti gli studenti hanno il privilegio di studiarlo a causa di mancanza di fondi o altre burocrazie politiche. Che cosa suggerirebbe per risolvere il problema? Secondo lei, arrivano fondi sufficienti per l’italiano negli USA da Roma o dalle EU?
R. Non so quanti fondi arrivino in USA per l’italiano, if any. So però che in USA l’italiano è visto e sentito come lingua di immigrazione, sebbene l’immigrazione sia in quel paese un fatto più storico che attuale, e come tutte le lingue etniche sta in secondo piano, se non in terzo. Perfino i giovani di discendenza italiana si risparmiano di impararlo, cosa che mi pare assolutamente criticabile. Del resto il desiderio di imparare una lingua è trasportato dalla presenza di una cultura viva: non si può dire che il cinema italiano, ad esempio, sia esportabile fuori d’Italia o che la graphic novel italiana sia tanto attraente. L’italiano ne fa le spese”.

 

Raffaele Simone ha insegnato in diverse università italiane. Direttore del Dipartimento di Linguistica (1995-2008), ha fondato e coordina il TRIPLE – Tavolo di Ricerca sulla parola e il Lessico. Già Vicedirettore della Redazione Multimediale dell’Istituto della Enciclopedia Italiana, Simone ha diretto diverse collane editoriali e ha fatto parte di commissioni e comitati ministeriali per la redazione di programmi educativi e per la diffusione della lingua italiana all’estero. Negli USA ha insegnato per vari periodi alla NYU, alla Columbia, a Yale, e al CSLI di Berkeley

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