Vi proponiamo integralmente un articolo di Remigio Ratti, per molti anni presidente della Comunità radiotelevisiva e membro del Consiglio svizzero della scienza pubblicato sul “Giornale del Popolo“.
L’italiano è a tutti gli effetti lingua ufficiale e nazionale: è parlato nella misura del 52,9% al di fuori della Svizzera italiana e la maggioranza di questi italofoni, non soltanto nel Ticino, sono svizzeri. Stiamo citando Lorenzo Tommasin, ordinario dell’Università di Losanna, intervenuto al significativo e opportuno dibattito sulle cattedre di lingua italiana promosso a Palazzo federale dall’intergruppo parlamentare per l’italiano, alla presenza delle massime istanze e operatori della politica del multilinguismo.
Un altro dato, da affiancare al primo, è tuttavia quello della diminuzione dal 2001 al 2016 dei professori ordinari e straordinari nelle cattedre di italianistica delle otto Università svizzere, passati da 18 a 12,5 (-5,5); un forte indebolimento che non può essere per nulla compensato, come sottolineato da Maria Antonietta Terzoli, ordinaria dell’Università di Basilea, dalla parziale trasformazione in posti per professori associati (da 2 a 6,7), per professori assistenti (da 0 a 3) o invitati (da 0 a 1). Con tutto il rispetto per queste persone è evidente che esse saranno meno forti nelle istanze universitarie e nel loro grado di libertà accademica, nonché instabili poiché facilmente attratti altrove.
Qui il discorso sul valore della lingua, della cultura e delle radici di civiltà italiana nel contesto del plurilinguismo svizzero diventa anche economico, distinguendo bene tra economia ed economie. Quest’ultime sono l’oggetto diplomaticamente nascosto del contenzioso aperto con le istanze pianificatorie delle Università: ricordiamo che Neuchâtel e l’ETH-Z hanno già perso le rispettive cattedre e che ad ogni pensionamento si mette in moto l’operazione sopracitata, togliendo potenziale, dirottando studenti (sono un migliaio), risorse di ricerca e svalutando quella funzione di antenna culturale emittente e ricevente nei riguardi delle rispettive città universitarie. Nelle scienze regionali questo si chiama distruzione di capitale territoriale. Ce lo possiamo permettere?
Lo scenario attuale costituito dalle reti svizzere e internazionali dell’italianistica delle nostre Università – alle quali si dovrebbe, come ventilato a Berna, aggiungere quelle dei politecnici – è tacitamente messo a confronto con due altri, di matrice competitiva; quello di concentrare tutte le forze su un Centro di competenza nazionale – apparentemente a gloria dell’unica Università di lingua italiana fuori dalla Penisola – affiancato da qualche corpo satellite d’oltralpe oppure, terzo scenario, la variante di un Centro di competenza di italianistica per ogni regione linguistica svizzera. Ricordiamo tuttavia volentieri come il giudizio sui valori di questi differenti scenari non possa prescindere dal valutare, accanto alle funzioni di formazione e ricerca, anche quella di servizio al Paese e che le regioni linguistiche esistono solo per qualche artificio politico.
Per una Svizzera che investe annualmente in formazione, ricerca e sviluppo 7 miliardi di franchi, di cui l’85% per le Università, ci sembra un po’ pilatesco che, in nome delle autonomie cantonali e delle territorialità linguistiche, l’autorità federale non assuma una parte di responsabilità nelle sfide della coesione e del plurilinguismo svizzero, dove tutte le lingue semmai sono confrontate con le forze della globalizzazione. In futuro faremo la differenza non limando i costi, ma rafforzando con un po’ di sussidiarietà il federalismo. Ricordiamo che per l’italianistica siamo all’incirca allo 0,2-0,3% del budget globale.