«A scuola e in Tv la lingua italiana va alla deriva»

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(14/01/2013) Un saggio molto inquietante sul nostro modo di esprimerci

Sciantose, gladiatori, ciarlatani e im­bonitori vari imbacuccano di chiac­chiere vane il colto pubblico e l’inclita guarnigione, spesso pagati con somme favolose, scrivono libri, raccontano la loro vita sgrammaticando: è solo un esempio, e tuttavia emblematico, dell’uso che oggi viene fatto della lin­gua italiana. Sul cui dolente stato si in­terroga Massimo Arcangeli, docente di Linguistica italiana all’Università di Cagliari e alla Luiss di Roma nel saggio dall’eloquente titolo Cercasi Dante di­speratamente . L’italiano alla deriva . (Carocci editore, pp. 221, € 12). Lo ab­biamo intervistato.

Perché cercare l’Alighieri, professo­re?

«Dante è il più straordinario interprete di quell’espressività del sublime che la nostra tradizione letteraria ci abbia consegnato. Se si fosse imposto il suo modello, se si fosse compresa appieno la sua forza creativa, se non avesse avu­to la meglio l’elitarismo di un Pietro Bembo (con l’ingombrante corredo di una prosa artefatta e supponente), la storia linguistica italiana avrebbe im­boccato una strada diversa da quella del monolinguismo fiorentino e del suo patrimonio più “puro”. Un patrimo­nio giunto praticamente intatto, pro­prio per il tramite di personaggi come Bembo, al pensiero ottocentesco».

E il Manzoni?

«Lo stesso Manzoni, pur sposando po­sizioni che rispecchiassero l’uso lingui­stico vivo, non ha potuto sottrarsi al progetto provinciale di avvicinare pro­gressivamente il suo capolavoro al fio­rentino parlato della sua età. Se si fosse seguita la linea dettata dal lungimiran­te Ascoli, anziché la sua, oggi racconte­remmo un’Italia culturalmente più so­lida di quella lasciataci in eredità da manzonisti e cruscanti».

Quali fattori hanno maggiormente contribuito all’imbarbarimento della nostra lingua, che – sovente anche in persone fornite di studi superiori – presenta una desolante povertà di vo­cabolario, scempio di grammatica, ortografia e sintassi?

«L’assoluta mancanza del più elemen­tare senso civico in materia di utilizza­zione dello strumento linguistico ha trasformato masse consistenti di par­lanti (e, in parte, di scriventi) in utiliz­zatori passivi dell’italiano. La scuola, italiana, erede della devastante “dere­golamentazione” normativa degli an­ni Settanta, ha ormai rinunciato a im­partire solide regole, anche soltanto poche (anzi preferibilmente poche): regole, prima ancora che grammatica­li, di comportamento e di pensiero. I ripetuti appelli a una presunta sempli­cità che, in molti casi, è invece un im­barazzante semplicismo hanno fatto il resto».

Qual è il ruolo che la televisione italia­na ha avuto nel favorire la diffusione di un linguaggio sconcio e spesso in collisione con il codice penale?

«Non è possibile quantificare, ma non sarebbe forse nemmeno utile: la televi­sione è solo la punta di un iceberg. Volgarità e sconcezza, purtroppo, abi­tano il mondo reale molto più di quan­to immaginiamo. Il piccolo schermo, come la pubblicità, non fa che asse­condare i gusti del pubblico. Non credo alla favola che, se si mettessero in onda programmi di qualità, milioni di italia­ni li guarderebbero. A meno che non si vogliano spacciare per tali i programmi dei Fazio o dei Saviano, o dei Benigni che si avventurano in improbabili let­ture della Commedia» .

Di Schopenhauer lei cita questa ri­flessione: «Quando ci si accorge che l’avversario è superiore, e si finirà per avere torto, si diventi offensivi, oltrag­giosi, grossolani, cioè si passi dall’og­getto della contesa (dato che la partita è persa) al contendente e si attacchi in qualche modo la sua persona». Non è quel che capita di veder spesso alla Tv italiana?

«Chi partecipa a un talk show, o a una delle tante finte occasioni di dibattito che ci propina la televisione, sa perfetta­mente che deve riuscire a sopraffare il suo avversario, parlandogli sopra o ag­gredendolo verbalmente, se vuole di­mostrare a chi guarda di avere ragione. Non è importante che abbia davvero ra­gione, è importante che gli altri pensino che sia così».

Quando c’erano i maniscalchi c’era quello che ferrava i cavalli da corsa e quello che ferrava il somaro dell’ortola­no. Non è in fondo quello che capita a certi letterati che credono che il parlar popolare significhi parlare triviale e osceno?

«Sono d’accordo. Un conto è il Belli, un altro conto sono certi scrittori (o, per l’ap­punto, certi “letterati”) che scambiano le abbondanti iniezioni di becerese per le­zioni di sanguigna popolarità».

Parole straniere possono anche arric­chire la nostra lingua, ma se tale uso deriva da pigrizia, da vanità o ignoranza non è davvero colpevole?

«Certamente. Sul banco dei principali imputati siedono la pigrizia e lo snobi­smo esterofilo di chi, dell’inglese veicola­re globale, biascica magari a malapena qualche parola».

La desertificazione del linguaggio è connessa con la generale caduta della cultura storica?

«La storia (con la geografia) è un convita­to di pietra. Distantissima dall’orizzonte conoscitivo delle nuove generazioni, col­pevole anche la scuola italiana, pochi hanno il coraggio anche solo di nominar­la. Prima o poi chiederà il conto, e sarà molto salato».

(Corriere del Ticino, 7 gennaio 2013)


MASSIMO ARCANGELI CERCASI DANTE DISPERATAMENTE. L’ITALIANO ALLA DERIVA.
CAROCCI EDITORE, 221 pagg., 12 €.

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