Le ferite dell’Italia viste dagli occhi di Amara Lakhous

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Vi proponiamo integralmente l’intervista allo scrittore italo algerino Amara Lakhous pubblicato sul sito de “La voce di New York”:

Alla Casa Italiana NYU, lo scrittore italo-algerino, Amara Lakhous ha parlato delle sfide dell’Italia multi-etnica, della Roma e della Torino dell’immigrazione e della sua esperienza di rifugiato politico, immigrato e scrittore in una lingua che non è la sua lingua madre. “L’Italia deve fare i conti con le sue vecchie ferite e capire che fanno parte della sua storia”, ha detto lo scrittore.

“Sono un poligamo del linguaggio”, così si definisce Amara Lakhous, scrittore italo-algerino divenuto celebre in Italia grazie al suo libro Scontro di civiltà per un ascensore a Piazza Vittorio, che gli è valso il premio Flaiano. Nell’incontro alla Casa Italiana Zerilli-Marimò, lunedì 23 novembre, Lakhous ha avuto modo di raccontare al pubblico la sua storia, che l’ha portato a viaggiare per il mondo in cerca di sé stesso e delle sue radici.

“Il mio nome in arabo vuol dire costruttore — ha detto lo scrittore — Io sto ancora costruendo la mia identità. Vivere da rifugiato, da immigrato e poi da cittadino in un paese complesso come l’Italia e in grande trasformazione ha contribuito a fare di me l’uomo che sono oggi. Tutto è cominciato dal quartiere romano che si estende intorno a Piazza Vittorio, luogo del confronto culturale, dell’incontro con sé stessi e con il proprio passato”. Piazza Vittorio è la Chinatown romana. Un tempo luogo ricco, simbolo della borghesia nascente, oggi si è completamente trasformato. Dove prima erano lussuosi negozi, oggi sono le bancarelle, i mercati di frutta e verdura e i piccoli negozi degli “stranieri”. Piazza Vittorio però, ha detto l’autore, è sempre stata “una sorta di laboratorio sociale a cielo aperto”. Come ci ha spiegato l’autore, infatti, il fastoso porticato che si estende su tutti e quattro i lati della piazza riecheggia i portici torinesi, città simbolo dell’immigrazione dalle regioni del Sud Italia. Quegli stessi portici che mettono in contatto storie, culture e tradizioni differenti, costringendo “l’io” a incontrarsi con “l’altro”.

Piazza Vittorio è appunto il luogo in cui ha vissuto l’autore per 15 anni. Qui Lakhous ha “incontrato” i personaggi dei suoi libri, personaggi che, ha affermato, “inseguo come se cercassi me stesso”. Sono soggetti pittoreschi, diversi per cultura e provenienza geografica. “Per questo – ha detto l’autore – scrivo i miei libri in due lingue diverse: l’arabo e l’italiano. È come se la lingua mi costringesse a specchiarmi in un’altra identità, diversa da me, ma senza la quale neanche l’io esisterebbe. In questo senso il linguaggio esprime poligamia”.

Lakhous è arrivato in Italia come rifugiato politico. Il suo lavoro di giornalista radiofonico ad Algeri, infatti, gli aveva provocato non pochi problemi. Dopo aver ricevuto l’ennesima minaccia e ormai “stanco di aspettare il mio assassino”, Amara si è trasferito in Italia. Arrivato nel bel paese all’età di 25 anni, lo scrittore ha confessato di aver sempre nutrito una passione profonda per la lingua italiana: la lingua di Fellini, di Gassman, di tutti quei registi e interpreti che l’autore amava. “Volevo parlare l’italiano come lo parlavano loro. Io sono stato sempre affezionato all’italiano, anche perché l’Italia è stato il paese che mi ha accolto per proteggermi. Ho iniziato a imparare l’italiano all’aeroporto, il primo giorno che sono arrivato. Intorno a me c’era tanta gente che mi faceva domande sui documenti, sul permesso di soggiorno e altre cose burocratiche. Ho capito subito, dunque, che imparare la lingua mi avrebbe permesso di difendermi”.

Una volta in Italia, l’autore ha studiato Antropologia alla Sapienza, dove si è laureato con una tesi sugli immigrati arabi in Italia di seconda generazione. “In Algeria – ha raccontato – avevo studiato filosofia perché volevo comprendere la società algerina. Poi ho capito che era impossibile, perché era irrazionale. Arrivato in Italia, ho capito che anche lì la società era irrazionale, motivo per cui mi sono sentito subito a casa. Dopo 15 anni in Italia, ho capito che non ero al 100 per cento algerino e che non avevo una sola identità. Questa per me è una caratteristica positiva perché avere una sola identità è come vivere in una prigione. Io ho deciso di spezzare le sbarre e uscire, questo è stato il mio destino. Sapete, l’emigrazione è un atto di ribellione. […] Quando uno nasce in un paese vuol dire che dio ha voluto che quella persona nascesse e crescesse lì. Chi decide di andarsene compie un atto di ribellione”.

L’ultimo libro dell’autore è La zingarata della verginella di Via Ormea, al momento in traduzione inglese. Già tradotto, invece, Contesa per un maialino italianissimo a San Salvario (uscito negli USA per Europa Edition con il titolo Dispute Over a Very Italian Piglet), per la cui storia, ha confidatolo scrittore  al pubblico della Casa Italiana, l’ispirazione gli è venuta da niente di meno che l’ex ministro Calderoli. “Quando incontrai Calderoli come corrispondente estero ero emozionato, perché lui è proprio un soggetto da libro — ha raccontato Lakhous ricordando, insieme al direttore della Casa, Stefano Albertini, quando Calderoli se ne andava in giro con il maialino al guinzaglio in segno di disprezzo e sfida nei confronti dei musulmani — Quando gli chiesi se pensava davvero che un maiale potesse rappresentare l’immagine dell’Italia, lui mi rispose che sì, lo credeva sul serio. Io sorrisi, per me aveva risposto pienamente alla mia domanda. Se hai bisogno di un maiale per ricordarti delle tue origini, c’è qualcosa che non va”.

Nei libri di Lakhous c’è sempre il tema dell’immigrazione, dall’estero e dal Sud Italia, che secondo l’autore è una “ferita ancora aperta nella storia italiana”. Amara Lakhous si è scontrato per la prima volta con questa “ferita” nel suo primo viaggio a Torino. Stava andando lì come giornalista e durante il viaggio dalla stazione all’hotel era stato accompagnato da un tassista che per tutto il tempo parlò di Torino e di come fosse stata rovinata, distrutta dal Sud e dai meridionali. “Io fui così colpito dalla sua aggressività che decisi di scriverci un romanzo e di ambientarlo a San Salvario, dove ero arrivato per caso mentre passeggiavo per la città. San Salvario è il simbolo delle sfide rappresentate dall’immigrazione, è un laboratorio sociale. In questo mi ricordava molto Piazza Vittorio e il quartiere in cui sono cresciuto in Algeria. L’Italia può farcela e potrebbe uscire più forte da questa esperienza. Prima però deve aprirsi alla sua vecchia ferita, rimarginarla, soprattutto capire che fa parte di sé, della sua storia. Deve ripartire dalle sue vere radici se vuole proiettarsi verso il futuro. In fondo, la storia dell’Italia è la storia dell’immigrazione”. Per dimostrarlo lo scrittore ha mostrato un’immagine di un articolo del New York Times degli ultimi anni dell’800. Nell’articolo gli italiani sono descritti come feccia, come poveri che gettano le loro cose per la strada, che vivono nella sporcizia e che fanno nascere e crescere i propri bambini dentro a baracche, bugigattoli dove i pidocchi e i batteri fanno da padroni.

Lo scrittore ha poi svelato le sue influenze letterarie dichiarando un amore per Sciascia, i cui libri sono diversi dal genere del giallo classico. Secondo i canoni di quest’ultimo, infatti, esiste sempre un lieto fine. “Nei romanzi di Sciascia, invece, così come nel mio Scontro di civiltà per un ascensore a Piazza Vittorio, il finale è aperto e non c’è soluzione. Questo rispecchia pienamente il pensiero italiano e dei paesi del Mediterraneo. Noi non possiamo trovare una soluzione al nostro mistero, siamo aperti. L’unica cosa che possiamo, anzi dobbiamo fare, è ricordare. Come diceva Sciascia: ‘Il nostro è un paese senza memoria e senza verità. Per questo voglio ricordare’. Dobbiamo ripartire da lì, dall’apertura al mondo che fa parte del nostro DNA, se vogliamo procedere verso il futuro”.

Il link all’articolo sul sito della Voce di New York

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