Comunicazione, mezzi e linguaggi: i media italici nel nuovo mondo

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(24/04/2017) Dal sito de “La voce di New York” vi proponiamo integralmente questa analisi dei media “italici” sparsi nel mondo ricca di dati interessanti.

Media italici, come “La Voce di New York”, che mettono insieme tutti coloro che, in giro per il mondo, sono uniti dall’adesione a un comune sentire, alla Italian way of life. Uno stile di vita che potrebbe diventare un ”sistema” globale e vincente e che può fare a meno di essere codificato e delimitato dal passaporto.

 

Nell’era globale le comunicazioni e, più in specifico, i mezzi di informazione stanno radicalmente cambiando. Stanno cambiando se stessi. Ma, soprattutto, stanno cambiando noi, i loro fruitori.

Internet, i social network, i giornali online, i blog, Youtube, Facebook, Twitter, le email, servizi come WhatsApp e Skype e tanti altri in continua e quasi quotidiana apparizione stanno modificando l’assunto attorno al quale in questo settore ha ruotato un’intera generazione: cioè il postulato del sociologo Marshall McLuhan secondo cui “il medium è il messaggio”. Una vera scoperta per l’epoca: bastava comunicare, quasi non importava che cosa, contava di più lo strumento. La rivoluzione tecnologica stava permettendo ai gruppi editoriali e televisivi, ai giornalisti, ai politici, ai think tank di studiosi di disporre di mezzi e sistemi talmente innovativi da rappresentare loro da soli la vera novità.

La storia però è andata avanti, precipitosamente, con sempre nuove scoperte scientifiche e tecniche. Il risultato è che oggi, pochi decenni dopo l’enunciazione della teoria di McLuhan e per la prima volta nella storia dell’umanità, non più i grandi gruppi – editoriali, politici, economici, sociali – che finora hanno usato e controllato i media, bensì i singoli sono in grado di comunicare in prima persona con il mondo: direttamente e senza filtri. E, visto che usiamo tutti gli stessi strumenti tecnologici sempre più sofisticati ma sempre più user friendly, ovvero facili da usare, non è più importante il “come” trasmettiamo ma proprio “che cosa” trasmettiamo. I contenuti, giusti o sbagliati che siano, condivisibili o condannabili, hanno ripreso il sopravvento.

Oggi, insomma: “Il medium siamo noi. E, contemporaneamente, siamo anche il messaggio”.

Di questo turbinìo risente pure il mondo dei media italici, una rete che – come vedremo – non sa ancora di essere tale o di poterlo diventare.

È una rete, tanto per cominciare, che ha a disposizione una lusinghiera platea potenziale di circa 250 milioni di utenti. È questa la cifra che si calcola possa comporre la rete italica. Fatta non soltanto dagli italiani che vivono in Italia. Come sostiene Piero Bassetti, il politico milanese che da tempo si occupa della questione [1], sono “italici” (categoria, o meglio “gens”, che va oltre l’italianità) tutti coloro che in un qualche modo si rifanno all’inconfondibile Italian way of life. Figli di emigranti, cittadini di regioni italofone come l’Istria, il Ticino, la Dalmazia, San Marino, in parte Malta, ma anche soltanto persone che in giro per il mondo, pur non avendo una goccia di sangue italiano hanno stili e gusti di vita, propensioni imprenditoriali che si rifanno all’italicità. Una cifra, 250 milioni, ben più consistente dei semplici 58 milioni di italiani di passaporto. Che, per di più, fanno sempre meno figli.

 

Piccoli ma tantissimi

La rivoluzione in atto nella comunicazione globale comporta, però, un’altra “prima volta”. Per la prima volta è impossibile calcolare in dettaglio il fenomeno dei media italici. Su internet e dintorni nascono e muoiono costantemente troppe iniziative, anche piccole e piccolissime ma spesso, pur essendo di nicchia, molto valide. Non possono essere censite. Sarebbe come voler contare le gocce del mare. Quando nel 1994 pubblicammo con la rete delle Camere di Commercio italiane all’estero (Assocamerestero) e con la Presidenza del Consiglio la prima ricerca ragionata, scoprendo che in giro per il mondo c’erano almeno 400 media italici [2] eravamo arrivati a questa cifra dopo un lungo lavoro ma tenendo conto soltanto dei media cosiddetti tradizionali, quelli che c’erano all’epoca: giornali di carta, radio e televisioni. Stesso discorso quando, dieci anni dopo facemmo assieme all’Ordine dei giornalisti un aggiornamento [3]: basandoci sui dati della prima ricerca risultò che, complice certamente un fenomeno in crescita ma anche l’affinamento della nostra ricerca, questi media risultavano in realtà essere oltre 700, cioè quasi il doppio. Due ricerche, le nostre, che furono difficili da realizzare ma che ancora erano possibili. Perché i media e le testate da scovare esistevano “fisicamente”, reperibili insomma a un indirizzo e un telefono, con una redazione sia pure minuscola.

Oggi, invece, l’impossibilità di “stare dietro” al fiume in piena che si dipana lungo gli infiniti rivoli della Rete ha spinto persino il Ministero degli Affari Esteri a smettere di seguire il fenomeno. Ormai da qualche anno dal sito della Farnesina è scomparso uno strumento di consultazione utilissimo: l’elenco dei media italici, che veniva diviso Paese per Paese. Un vero peccato perché si tratta di un patrimonio – italico ma allo stesso tempo internazionale – di cui andare fieri. Ma è una scelta (per la verità: una rinuncia) giustificabile, appunto, per l’obiettiva impossibilità di un censimento.

 

 

Oltre l’Europa

Noi, però, non demordiamo. Combinando e analizzando gli ultimi dati che abbiamo a disposizione in Globus et Locus con quelli di altre organizzazioni e istituzioni, stiamo tentando di avere ancora una volta un quadro della situazione, parziale ma allo stesso tempo abbastanza chiaro.

Le cifre sono sempre noiose da leggere. Per cui forniremo solo quelle essenziali.

A oggi, regolarmente “censiti” o censibili, possiamo dire che nei cinque continenti del pianeta operano quasi 800 media italici. Si tratta, ripetiamo, di quelli che è possibile catalogare. Quelli tradizionali: giornali, periodici, programmi radiofonici e televisivi. Per i siti web, i giornali online, i blog eccetera abbiamo un’idea. Ma, nel caotico e anarchico magma della Rete, è francamente difficile buttar giù un dato senza tema di essere smentiti. Tra l’altro sono per primi questi nuovi media – spesso soltanto blog di una sola persona – a non sembrare interessati a rientrare in una qualche catalogazione: si accontentano di esistere in quanto tali, monadi/testimoni di interessi, pensieri, idee di singoli o di piccoli gruppi che, grazie alla democratica anarchia della Rete, acquisiscono o possono acquisire con un semplice “clic” lo stesso peso di realtà mediatiche ben più consistenti. Basti pensare che qualche anno fa, nel 2007, quando ormai Internet era esplosa mostrando tutto il potere della sua capillare pervasività, all’ultima conta prima che la Farnesina rinunciasse alla catalogazione, i siti web di italicità che avevano mostrato un qualche interesse a farsi riconoscere, accreditandosi più o meno presso le istituzioni, erano stati appena poco più di una ventina. È ovvio che già allora erano molti – ma molti – di più. Nell’ordine almeno di svariate centinaia.

Teniamoci, quindi, bassi. Dicevamo: quasi 800 media “tradizionali”. Per la precisione, secondo gli ultimi calcoli, sarebbero 776. Di questi, 455 sono cartacei: quotidiani (pochi, in pratica soltanto America Oggi a New York come cartaceo, e qualcun altro ormai passato interamente in Rete come la storica Voce di Caracas o altri nati appositamente online e subito posizionatisi nelle prime file delle classifiche, come recentemente La Voce di New York) e soprattutto settimanali, mensili e a cadenza più ampia. Le radio sono 274 mentre le televisioni “appena” 46. Va chiarito che per “radio” e “televisioni” vanno intesi in larga parte “programmi radiofonici” e “programmi televisivi”, inseriti cioè all’interno di emittenti che si occupano anche di altro. Esistono però anche varie stazioni radio in proprio.

 

I media italici più numerosi sono, comprensibilmente, nell’area europea (322). Ma moltissimi, a seguire, sono anche quelli in America Latina (274) e nel Nord America (173). A distanza l’Australia e il Sud Est asiatico (50) e l’Africa (soltanto 10). Il numero esiguo in Cina e nel resto dell’Asia (solo 6), se è giustificato dalla obbiettiva e storica scarsa presenza di italiani e di italici nell’area (situazione che, comunque, sta cambiando) fa intuire che anche il mondo italico come quello italiano ha forse capito in ritardo le potenzialità di quest’area in fortissima espansione e sempre più decisiva nel mondo globale. Bisognerà correre in fretta ai ripari.

Un breve cenno almeno ai due paesi in cui i media italici sono più numerosi. Se, ripetiamo, è l’Europa l’area geografica che ne registra complessivamente la presenza maggiore, i paesi che guidano la classifica sono invece l’Argentina (124) e gli Stati Uniti (104).

A convincerci della straordinaria opportunità che abbiamo davanti e che nessuno ha ancora colto, non sono però soltanto queste cifre. Ci colpisce, semmai, la rapida e costante crescita di questi media. Che va in controtendenza con una realtà di fatto: l’emigrazione italiana intesa in senso classico sta diminuendo. Ma, contemporaneamente, sta esplodendo quella che oggi si chiama la mobilità internazionale: quella dei cosiddetti cervelli che, secondo noi, non sono “in fuga” o persi ma vanno invece a impiantarsi in nuove realtà, ibridandosi proficuamente e ibridando di italicità i nuovi territori.

Come conseguenza di ciò stanno anche aumentando i media, anziché diminuire. Disponiamo di molti dati dettagliati per fare raffronti, ma ne citiamo uno solo per tutti. Per parlare soltanto dei giornali, lasciando da parte radio e tv, negli anni Ottanta del secolo scorso i giornali italici erano meno di 200. Oggi, passati appena venti anni sono, come dicevamo, 455: cioè più del doppio. Certo, in parte, questa cifra a cui siamo giunti è dovuta – come dicevo – alla maggiore accuratezza delle nostre ricerche e dei nostri censimenti. Ma non è l’unica spiegazione: se molti media sono morti – soprattutto, appunto, quelli della vecchia emigrazione – tanti altri sono nati e continuano a nascere a ritmo probabilmente quotidiano. E sono nati e nascono con spirito e motivazioni nuovi: italici, appunto.

Come si vede si tratta – Cina, India e Giappone colpevolmente a parte – di cifre che fanno riflettere. E che poche altre “appartenenze culturali” possono vantare.

Newsroom globale?

Ancora un dato che ci sembra importante.

In questi media in giro per il mondo lavorano almeno 2.000 tra giornalisti e dipendenti a vario titolo [4]. Una “redazione globale” non indifferente (vogliamo chiamarla: una potenziale newsroom italica?) che varrebbe davvero la pena tentare di mettere in rete, ovviamente rispettando le diversità territoriali, le singole autonomie societarie e le differenti professionalità. Certo, si tratta di una “redazione” piuttosto particolare. Perché, per dirne una, tiene in conto relativo la lingua.

Si dirà: la lingua dei media italici deve per forza essere l’italiano, no? No, invece: non è così. O lo è sempre meno. Se il 54 per cento, cioè la metà, scrive e parla ancora soltanto in italiano, il 41 per cento è bilingue, integra cioè l’italiano con la lingua del nuovo territorio di radicamento; per lo più inglese e spagnolo ma anche – in misura minore – il francese, il tedesco, il portoghese. E il 5 per cento usa soltanto la lingua locale. Il che significa che il 46 per cento, quasi la metà, dei media italici non considera l’italiano come l’unica e irrinunciabile lingua di comunicazione. Una percentuale che – ne stiamo cogliendo i segnali – è in crescita.

 

Come si vede, quindi, il panorama sia pure frastagliatissimo dei media italici costituisce un potenziale enorme. Nessun altro “commonwealth” internazionale dispone in teoria di una rete di comunicazione globale così capillare. Nemmeno il dominante mondo anglosassone. Nei cinque continenti i media in lingua inglese sono tantissimi, certo: sicuramente molti di più di quelli italici. Ma a identificarli è, appunto, soprattutto se non unicamente la lingua inglese, ormai diventata l’esperanto universale del Terzo Millennio. Un giornale in lingua inglese pubblicato, per dire, in Giappone non ha nulla in comune, non ha interessi e substrato analogo a un altro edito sempre in inglese in Sudafrica o in Italia o in America Latina o altrove. Usa soltanto la stessa lingua, l’inglese: nulla di più. Lo stesso vale per i numerosi media ispanici, anche se – va detto – l’hispanidad è dotata di un senso di appartenenza per certi versi maggiore della “anglosassonità”. E lo stesso vale, ancora di più, nei confronti dei media francofoni o germanici, peraltro di gran lunga meno numerosi di quelli italici.

Nel caso dei media italici, invece, il “collante” è decisamente diverso. È piuttosto l’appartenenza a un “comune sentire”, a uno stile di vita, a un gusto, a interessi condivisi, a una provenienza comune che – anche quando ormai lontana – “tiene sempre insieme” e soprattutto si aggiorna lungo i parametri di uno stile unico e inconfondibile come quello italico.

Ecco perché, per concludere … torno al punto di partenza. Nel 1994 e dieci anni dopo, nel 2005, quando uscirono la prima e poi la seconda nostra ricerca/censimento, scrissi e ripetei: «Sono piccoli. Ma sono tanti. E il loro numero è in aumento». E aggiunsi: «Si tratta di cifre e di un patrimonio culturale ma anche economico che dovrebbero far drizzare le antenne agli operatori più avvertiti dell’informazione e della pubblicità, per non parlare dei politici».

Le antenne non le ha drizzate quasi nessuno. In questi tempi i politici e il mondo economico hanno la vista corta del profitto e del ritorno immediati: non costruiscono orizzonti futuri, perché non ne hanno proprio la visione. Una grande opportunità sprecata, secondo noi. Messi insieme, infatti, questi media – giornali di carta, giornali e siti online, programmi radio e televisivi, blog eccetera – hanno un enorme potenziale di fare network.

 

 

Trasmettere l’Italian way of life

 Se nessuno ha ancora drizzato le antenne, lo abbiamo fatto noi, lo stiamo facendo da anni. Per “noi” intendo Globus et Locus, il think tank ideato da Piero Bassetti il politico che – andando controcorrente e incontrando inizialmente molte resistenze e incomprensioni – da anni sostiene l’esistenza di un fenomeno che dopo lunghe discussioni interne con i suoi collaboratori ha chiamato “italicità”: non solo, come ho detto, italianità esportata all’estero – magari anche sui binari non più luccicanti come un tempo del Made in Italy – ma una vera e propria ibridazione del tutto nuova. Che mette insieme coloro che, in giro per il mondo, sono uniti – spesso a loro stessa insaputa – dall’adesione a un comune sentire, alla Italian way of life. Uno stile di vita che potrebbe diventare un ”sistema” globale e vincente e che, pertanto, nell’era della globalizzazione può tranquillamente fare a meno di essere codificato e delimitato dal passaporto. Anzi: del passaporto non ha proprio bisogno.

Ci troviamo di fronte a un fenomeno in lenta ma costante evoluzione: radicato, variegato e al passo con le nuove tecnologie. Un fenomeno che, a fronte della scarsa attenzione del sistema politico-economico e giornalistico italiano (in tanti, lo sappiamo, preferiscono girare la testa liquidandoci come utopisti e inguaribili ottimisti) attesta invece la lenta presa di coscienza degli italici, consumatori di beni e servizi a forte connotazione italica e con una altrettanto forte capacità di aggregazione.

Tutto ciò ci aveva spinti a valutare, fra vari progetti e studi, anche la possibilità di dare vita a quella che abbiamo chiamato Italic Syndication. In sintesi: un contenitore di informazioni italiche alimentato da tutti questi numerosi media sparsi nei cinque continenti al quale, in un costante processo di osmosi, gli stessi media attingerebbero. Insomma: un serbatoio online dove – tramite password – potrebbero accedere i media partecipanti, portando i propri contributi giornalistici e potendo prelevare quello degli altri.

Un progetto molto bello e ambizioso al quale non abbiamo rinunciato. Ma per la cui realizzazione è indispensabile una vasta convergenza di interessi e di soggetti. In primis: quelli della politica. Soggetti che però, come abbiamo visto, …. latitano.

Noi, comunque, ripeto: non demordiamo. Perché restiamo convinti che l’immenso e unico patrimonio culturale che forma l’italicità abbia un futuro molto promettente. E che lo abbia, quindi, anche la rete di comunicazione lungo la quale l’italicità dialoga. Anche e soprattutto in un mondo globale, sempre più “piatto” e piccolo, sempre più istantaneo e connesso: come quello nel quale ci stiamo addentrando. Senza possibilità di tornare indietro.

[1] Cfr. per esempio l’appena uscito Svegliamoci italici! Manifesto per un futuro glocal di Piero Bassetti. 2015. Marsilio Editore.

[2] I media della diaspora: giornali, radio e televisioni dell’Italia fuori d’Italia. 1994. Edizioni della Presidenza del Consiglio. A cura di Niccolò d’Aquino.

[3] Annuario dei Mas Media italici nel mondo. 2005. Edizioni MediaPress. Niccolò d’Aquino e altri.

[4] Annuario dei comunicatori italici nel mondo. 2005. MediaPress. Ibidem.

 

Niccolò d’Aquino, giornalista, è consulente di Globus et Locus. Direttore editoriale della casa editrice IDE, Italic Digital EditionsAutore, tra l’altro, di: Italici (2008), Lezioni italiche (2010), La rete italica, idee per un Commonwealth (2014). Questo articolo, fa parte di uno studio presentato a Parigi da Transfopress, un gruppo di studio dell’Università di Versailles specializzato nell’analisi dei fenomeni comunicativi in lingua straniera.

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